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[Il ritratto] Trump sfida Putin e va alla guerra per far risalire i sondaggi in casa sua

Fino alla vigilia di quest’attacco notturno a Damasco non c’erano solo i sondaggi in calo a preoccuparlo. C’era pure e soprattutto il Russiagate. E questo spiegherebbe l’improvvisa inversione di toni nei confronti di Putin, che appena poco tempo fa aveva ricoperto di elogi e tante belle parole. Fino adesso, la curva dei consensi ha sempre rispettato le sue esibizioni muscolari

[Il ritratto] Trump sfida Putin e va alla guerra per far risalire i sondaggi in casa sua

Qualcuno ha scritto che la presidenza di Donald Trump si sta sempre più caratterizzando come quella di un «idiota geopolitico», un leader che seguendo il suo istinto prende decisioni di cui  evidentemente non gli sono chiare le conseguenze. In verità le cose non stanno proprio così. Sin dall’inizio c’è sempre stata una incomprensione di fondo fra lui e tutti gli osservatori. E gran parte del merito è suo, che a volte sembra comportarsi come un bambino cattivo che vuole riavere indietro il suo giocattolo, e guai a chi glielo tocca. Gli altri sono abituati a commentare un presidente e si trovano un po’ spiazzati. Il fatto è che, ad esempio, la politica estera gli serve solo in funzione del successo interno.

L’unica visione strategica che conosce è quella del consenso a casa sua. E nonostante tutto quello che ci raccontano, finisce per essere molto spesso in sintonia con un popolo fortemente nazionalista, in un Paese che ha un’industria bellica leader nel mondo. Guarda caso, tutte le volte che alza la voce, mostra i muscoli, minaccia, punta i missili o spara qualche insulto più pesante degli altri, lo share sale, inesorabilmente. Almeno fino a ieri. E probabilmente sarà così anche adesso, a parte qualche variazione temporanea (oggi dicono che sia sotto al 40 per cento). Il fatto è che fino alla vigilia di quest’attacco notturno a Damasco non c’erano solo i sondaggi in calo a preoccuparlo.

C’era pure e soprattutto il Russiagate. E questo spiegherebbe l’improvvisa inversione di toni nei confronti di Putin, che appena poco tempo fa aveva ricoperto di elogi e tante belle parole a umma umma. Ma in questi ultimi giorni è successo qualcosa di non irrilevante. Il 9 aprile l’Fbi ha perquisito lo studio di Michael D. Cohen, il suo avvocato personale, sequestrando diversi documenti fra i quali alcuni presunti pagamenti alla porno star Stormy Daniels con cui il presidente avrebbe avuto una relazione pochi giorni prima di essere eletto. Ma la cosa più importante è che all’origine di questo atto ci sarebbe stata una richiesta dell’ufficio di Robert Mueller, il procuratore speciale che sta indagando sulle sempre presunte infiltrazioni russe nelle elezioni del 2016. Ed è questo il nodo, perché la vera minaccia al suo consenso viene dal Russiagate più che dalle possibili rivelazioni del suo ipotetico rapporto con una pornodiva. Due giorni dopo, l’11 aprile, «The Donald» ha cambiato i toni. Con un suo tweet molto poco presidenziale avvertiva la Russia di prepararsi a missili «carini, nuovi e intelligenti». Poi altre frecciate all’«animale Assad» per scatenare le ola. A lui questi scambi di complimenti sono sempre riusciti benissimo. Adesso un bella guerra e un buon bombardamento notturno distoglieranno l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma c’è un altro motivo che potrebbe aver indotto il «guerrafondaio Trump», come lo chiama il suo competitor di boutade e minacce Kim Jong-Un, a cercare distrazioni in Medio Oriente. Secondo i sondaggi più recenti, alle elezioni del prossimo autunno il partito repubblicano potrebbe perdere la maggioranza in almeno uno dei due rami del Parlamento, rendendo più complicata la presidenza di Trump. Diventa imperativo far risalire i consensi, anche se lui non si è mai sentito così organico con i repubblicani. Il fatto è, però, che i loro voti sono determinanti.

Fino adesso, la curva dei consensi ha sempre rispettato le sue esibizioni muscolari. Se il licenziamento dell’ex direttore Fbi James Comey aveva portato in basso l’indice di gradimento, perchè la decisione aveva più che altro rafforzato i sospetti sul Russiagate, è bastato uno dei suoi insulti più comuni, dar dell’animale ad Assad, per farlo rialzare. Il 7 aprile 2017 lanciando missili sulla Siria aveva risalito la china del 40 per cento e una settimana dopo con «la madre di tutte le bombe» per l’Afganistan aveva cominciato a marciare verso il 43. Oggi, alla vigilia dell’attacco, era di nuovo sotto quaranta. Una «bella guerra» polarizza gli animi. E fa dimenticare i suoi problemi legali. Bisognava solo fare in fretta, prima che l’Onu scoprisse che come per l’Iraq bombardato da Bush e Blair non c’era nessun giusto pretesto. Ce la prendiamo tanto con i nostri populisti, ma questo li batte tutti. E a differenza loro è nella stanza dei bottoni per far la guerra a chi vuole lui. Più che un cowboy sembra un bambino con i soldatini. E’ convinto che le armi siano dei giocattoli. Più sono potenti e più si diverte. Quando ha approntato il bilancio, ha destinato oltre la metà delle spese, una fetta incredibile di 654,6 miliardi su 1300, «per rinnovare il nostro apparato nucleare», come annunciò con grande orgoglio: «Saremo la forza più potente al mondo. Nessuno si avvicinerà al nostro livello».

Tutte le volte che qualche folle spara in mezzo alla folla, lui difende a spada tratta la liberalizzazione delle armi: quella filosofia non si tocca. Ma se i suoi critici più spietati pensano che questi siano solo autogol che alla lunga stancheranno i suoi elettori, si sbagliano di grosso. Lo hanno sempre perdonato, anche quando è andato oltre i limiti, come se si rivedessero nelle sue esibizioni verbali da guerriero anonimo della tastiera, da Napalm 51 in versione presidenziale. Già nella sua campagna elettorale aveva insultato tutti, dalle donne agli stranieri, inanellando figuracce impossibili, e i grandi commentatori erano convinti che non ce l’avrebbe fatta. Dell’unica candidata donna repubblicana disse: «Ma l’avete guardata bene? Qualcuno può immaginare un presidente Usa con quella faccia?». A una giornalista di Fox News, Megin Kelly, che aveva osato porgli domande poco gradite aveva detto: «Le esce sangue da ogni parte». A un comizio aveva addirittura fatto l’imitazione sgraziata di un reporter disabile del New York Times. Tutti offesi. Ma le elezioni le ha stravinte. Ha detto che il governo americano «manda negli States i suoi stupratori», che bisogna impedire ai musulmani di entrare da noi», ha chiamato «gente che arriva da questi cessi di paesi» quelli che vengono dal Salvador, Haiti e dai paesi africani, ha definito due conduttori tv «una matta con basso quoziente intellettivo e lui uno psicopatico» e Barack Obama «il fondatore dell’Isis». Non importa che adesso butti le bombe proprio contro quelli che hanno sconfitto l’Isis. Si diverte sui social a sputare insulti e tweet ma vorrebbe chiudere internet perché «alimenta l’estremismo». E’ così convinto di quest’idea che ha annunciato di voler incontrare Bill Gates per parlarne con lui. La verità è che cercare di capire Donald Trump è impossibile. E pure un po’ gli americani. Che poi ci prendono in giro per Berlusconi e Grillo e tutti gli altri...   

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore   
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