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"Washington renda pubblici gli accordi di Doha che hanno deciso il ritiro. Non dare legittimità al governo talebano"

Il generale Tricarico (Icsa). “Il fallimento e il collasso afgano ci devono far riflettere sulle cosiddette missioni di formazione predilette dai governi italiani. Rischiamo di sprecare tempo, risorse e formare nemici”

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
'Washington renda pubblici gli accordi di Doha che hanno deciso il ritiro. Non dare legittimità al...

“Washington renda noti immediatamente, senza ulteriore indugio, gli accordi di Doha dell’aprile 2020 quando l’amministrazione Usa decise il disimpegno militare dall’Afghanistan. Senza questa operazione di trasparenza, ci parliamo addosso, ci stupiamo, shoccati per le immagini di persone attaccate alle ruote degli aerei che cercano di scappare da Kabul ma la comunità occidentale non avrà gli strumenti per decidere cosa fare. Ed è chiaro a tutti che non abbiamo un minuto da perdere visto che le milizie talebane stanno andando casa per casa per vendicarsi di chi in questi vent’anni ha appoggiato le missioni militari della Nato e delle Nazioni Unite”.

Leonardo Tricarico è stato per anni consigliere militare a palazzo Chigi e ora è presidente della Fondazione Icsa, think tank di analisi militare e geopolitica. Ha seguito anche personalmente la maggior parte delle principali missioni militari italiane. Quella in Afghanistan “mostrava da tempo gli indizi inequivocabili del fallimento”.  

Generale, spegni meglio il “suo” appello a Washington?

“Al punto in cui siamo, più che le analisi, è indispensabile conoscere il contenuto degli accordi che nell’aprile 2020 l’amministrazione di Washington ha sottoscritto con i capi talebani per decidere tempi e modi del ritiro delle truppe ma soprattutto tempi e modi della gestione del paese da parte del popolo talebano. A quali condizioni, a cominciare dai diritti umani, è stato consegnato quel paese dopo vent’anni in cui si è cercato di combattere il terrorismo e di mettere in piedi i fondamentali di una società moderna e democratica. Senza conoscerle, non possiamo fare assolutamente nulla. Comunque, gli unici titolati a pretendere la pubblicazione degli accordi di Doha sono le Nazioni Unite. Ma posso già immaginare che qualcuno, indico a caso Cina e Russia, proveranno a riconoscere l’Afganistan talebano così com’è”.  

Credo che prima di arrivare a Doha, occorra spiegare altro. “Fallimento”, “sconfitta”, “debacle”, sono le parole più usate per descrivere le missioni militari in Afghanistan. Generale, proviamo prima a spiegare perchè?

“E’ una debacle prima di tutto del popolo afgano. In questi vent’anni abbiamo addestrato oltre 300 mila persone. Di questi 180 mila sono entrati nell’esercito nazionale afgano e altri 130 mila in polizia. Avevamo quindi una certa confidenza sul fatto che questa realtà su cui abbiano investito anni e risorse, tempo e denaro e che, soprattutto abbiamo addestrato consegnando loro know how e tattiche militari e di combattimento, fossero in grado di resistere agli attacchi delle milizie talebane che prima o poi avrebbero tentato la presa di Kabul e delle altri grandi città e dei villaggi. Ma nessuno avrebbe mai pensato che quanto fatto in vent’anni potesse vaporizzarsi in poche ore”.  

Tutto così imprevisto?

“Beh, tutto tutto no. Bastava leggere in questi anni i report periodici dei vari formatori. Emergeva in modo chiaro che gli afgani non sono dei grandi combattenti. Non hanno proprio l’orgoglio e il sentimento di appartenenza ad un popolo. E quindi neppure l’ambizione di proteggerlo e difenderlo. Non amo generalizzare. Ma in vent’anni di formazione, questo abbiano riscontrato. Il fatto è che se tutti eravamo un po’ scettici ma confidenti che vent’anni avrebbero comunque dato dei risultati in termini almeno di tenuta, è stato frustrante constatare che tutto il lavoro fatto è stato inutile rispetto ad un manipolo di agguerriti talebani”.  

Ecco, appunto, i talebani: vent’anni, due generazioni e possibile che nulla sia cambiato e nulla abbiano capito? Possibile che l’Afghanistan sia ancora un paese in balia delle bande?

“Dico solo questo: la domanda più ricorrente oggi, in queste lunghe giornate, è chi sono oggi i talebani. Non sa rispondere nessun decisore politico nè militare e neppure alcun analista di scenari geopolitici e militari”.  

Si parla molto di corruzione. Può bastare per spiegare un collasso così clamoroso?

“Certo che no. I motivi sono tanti. Spiace dirlo ma il popolo afgano non ha alcuna motivazione ad essere tale. Non sente l’orgoglio di esserlo. E’ tutto in termini di bande e potere dei singoli capi.

Ecco che la corruzione è dilagata in fretta, forse da sempre, tra forze armate e la polizia. Un’altra causa del collasso sta nel fatto che i trecentomila formati sono entrati in contatto con strumenti, sistemi e armamenti tutti di fabbricazione occidentale. Questo ha rappresentato da subito un problema grossissimo visto che parliamo di una popolazione poco alfabetizzata. La manutenzione di tutta questa parte piano piano è destinata a sparire e quindi parliamo di materiale, armi e strumenti che via via non potranno più essere usati. . Un’altra piaga è stata la diserzione: la maggior parte dei soldati veniva reclutata e poi spariva durante la stagione della semina per andare al villaggio a fare il raccolto. Insomma, il massimo che siamo riusciti a mettere su è un’armata Brancaleone. Anzi no, mi correggo: quelli almeno avevano il coraggio”.  

Sento molta amarezza nelle sue parole.

“Amarezza e rabbia. La seconda riflessione che vorrei fare riguarda la natura, l’oggetto e la strutture di queste missioni miliari. Direi che è arrivato il momento di interrogarci seriamente se abbiano ancora un senso. Il fallimento più grande infatti è quello di un errore che viene ripetuto sistematicamente dalla grandi organizzazioni occidentali, intendo la Nato, le Nazioni Unite, gli stessi Stati Uniti”.  

Può spiegare meglio?

“Abbiamo sempre cercato di imporre modelli sociali, culturali e istituzionali che non erano applicabili alle realtà dove siamo andati. Cerchiamo sempre di esportare modelli che poi si rivelano non funzionanti in quei territori e in quei contesti di cui non conosciamo a sufficienza la realtà con cui dobbiamo confrontarci. E’ un problema serio se oggi nessuno sa rispondere alla domanda: chi sono e quanti sono i talebani”.  

Ecco, possibile che dopo vent’anni di occupazione militare le milizie talebane rispuntino fuori come se nulla fosse? 

Chi è stato in Afghanistan e ne conosce la conformazione - valli e montagne per lo più inaccessibili - sa bene come certi villaggi e determinate realtà siano rimaste irraggiungibili in condizioni minime di sicurezza”.  

Un conto è irraggiungibili, altro è sapere che le milizie talebane sono state sostenute economicamente e anche militarmente con armi e altro.

“Precisiamo che talebani è un’organizzazione politica-militare che ha imposto la legge coranica in Afghanistan era il 1996 e il 2001. Non sono quindi un popolo ma un’ideologia religiosa che le democrazie occidentali hanno cercato di combattere nelle sue parti violente e illiberali”.  

Al momento buono però sono rispuntati fuori. Come è possibile?

“Qui serve la lente di ingrandimento sul Pakistan che deve essere ancora oggi e una volta di più un osservato speciale della comunità internazionale. Da sempre quel paese ha un ruolo troppo ambiguo (ha nascosto per anni Bin Laden, ndr). Da un lato assecondava le istanze di chi diplomaticamente cercava di perseguire un obiettivo di democratizzazione e dall’altra continuava a sostenere e ad arruolare i talebani. Le madrasse pakistane (le scuole coraniche, ndr) sfornano in continuazione i soggetti del wahabismo più radicale, i figli e i padri dei talebani di oggi. Non siamo riusciti a rescindere questo cordone”.  

Senta, c’è un po’ di confusione sulla fine della missione militare in Afghanistan, Trump, Biden, Doha. Ci aiuta?

“Mi fa molto sorridere - per non dire altro - lo scarica barile su Biden, certe difese di Trump, certi leader politici anche nostri che cercano di sfruttare la situazione in chiave anti Usa e anti Biden, magari rimpiangendo Trump. Vorrei solo ricordare che il primo a parlare di disimpegno Usa in Afghanistn è stato Obama, Trump gli è andato dietro e Biden ha concluso l’operazione iniziata però anni fa. Quindi è ridicolo attaccare il Presidente, questa è una decisione dell’amministrazione di Washington e condivisa dai 2/3 della popolazione americana. Certo, neppure la Casa Bianca poteva immaginare questo collasso”.  

E a questo punto diventano centrali gli accordi di Doha.

“Che è esattamente da dove siamo partiti con questa chiacchierata. Gli accordi di Doha sono centrali per capire. Risalgono al febbraio 2020 e hanno stabilito che entro aprile-agosto 2021 ci sarebbe stato il ritiro delle truppe americane e la fine della missione”.  

Il presidente Biden ha appena parlato alla nazione. Molto freddo, ha confermato le decisioni prese e ha spiegato perchè “Kabul non è Saigon” e che la missione Usa era “ per combattere il terrorismo e non certo per imporre modelli democratici o insegnare la democrazia”. Da questo punto di vista, una volta trovato e ucciso Bin Laden per Casa Bianca e Pentagono la missione era compiuta.

“Mi pare tutto abbastanza poco credibile. Quasi ridicolo, E’ chiaro che anche loro non sanno giustificare le immagini che arrivano con la gente attaccata agli aerei che vuole fuggire e i talebani che entrano mitra in pugno nel palazzo presidenziale di Kabul.Ecco perchè insisto su Doha.  

Perchè?

“Questi accordi sono stati qualcosa di molto anomalo, bizzarro, irrituale, al di fuori di ogni procedura diplomatica internazionalmente riconosciuta. I tre attori - i talebani, il governo afgano e gli Usa - non si sono mai seduti allo stesso tavolo. L’amministrazione Usa ha negoziato separatamente con le altre due parti.Di questa negoziazione noi sappiamo la parte che è stata resa pubblica e che è francamente molto, troppo vaga. Nulla sappiamo di tutto il resto. Washington deve rendere pubblici questi documenti che sono fondamentali perchè l’Occidente, i paesi che sono stati coinvolti in questi vent’anni in Afghanistan, Nato e Onu possano conoscere e arrivare identità di veduta nella comunità occidentale Nato e Onu. Senza conoscere il contenuto vero degli accordi, diciamo cose senza senso e ci parliamo addosso”.  

Lei è convinto che si sia una parte “segreta” e che gli accordi non siano stati rispettati dai talebani?

“Innanzitutto talebani chi? Chi sono? Che riconoscibilità ha un leader rispetto ad un altro? Abbiano trattato con quello giusto? Sul resto, mi pare evidente che il comportamento talebano abbia violato gli accordi: è stata usata violenza, è stato messo in fuga il presidente legittimo, stanno cercando casa per casa per prendere, torturare e ammazzare chi in questi vent’anni ha dato assistenza agli eserciti stranieri, la gente vuole scappare e si attacca alle ruote degli aerei. Washington è costretta a inviare di nuovo tremila soldati per la messa in sicurezza di quel che resta della missione. Non credo che negli accordi ci fosse questo”.  

Intanto i talebani hanno preso il potere in 48 ore. Promettono “garanzie all’evacuazione in sicurezza delle missioni diplomatiche”. E qualcuno, Cina e Russia, comincia già a tendere la mano al nuovo regime.

“Guai se qualcuno riconoscerà come legittimo il nuovo regime talebano. Ancora peggio se questo dovesse avvenire prima della totale e integrale pubblicazione degli accordi di Doha”.  

Chi deve chiedere la verità su Doha?

“Le Nazioni unite e devono farlo subito: di cosa avete parlato e quali sono gli accordi. Poi ci si muoverà di conseguenza. Poi non sarebbe male se anche il “ministro” degli Esteri della Commissione europea dicesse qualcosa anche lui. E si mettesse a lavorare su questo dossier”.  

Esiste la possibilità di restare in Afghanistan senza Stati Uniti?

“In Afghanistan adesso ci sono condizioni più gravi che nei Balcani negli anni Novanta. Le Nazioni Unite devo riunirsi e decidere cosa fare. Servono gli accordi di Doha. Ma senza Stati Uniti è difficile fare qualcosa”.  

Quali “lezioni” dobbiamo prendere da Isaf e Enduring freedom, le due missioni afgane?.

“La prima: basta interventi armati senza conoscere la realtà di chi si va ad incontrare. La seconda: l’Italia, in particolare, da molti anni privilegia in queste missioni per “ritrosia politica” l’aspetto della formazione e non quello strettamente militare di queste operazioni”.  

Il famoso peace-keeping?

“Più o meno. Ora su tutto questo è giunto il momento di fare una profonda analisi e conseguente autocritica in previsione anche di altre missioni. E’chiaro che non bisogna avere alcun dubbio nel continuare a formare i peshmerga che sono fieri, combattivi e motivati perchè so che poi germoglierà qualcosa. Se invece andiamo a formare altri popoli, penso al Niger o ad altri paesi del Sahel e della Libia dobbiamo farci la domanda: siamo sicuri che formiamo contingenti che poi sanno portare avanti i valori che noi insegniamo? Siamo scuri che se noi dovessimo formare forze di polizia nei paesi dell’Africa subsahariana, queste persone faranno i poliziotti e non si lasceranno corrompere il minuto dopo? Magari diventando un pericol ancora maggiore per noi? Ecco, non siamo sicuri di nessuna di queste risposte”.  

Esiste il rischio terrorismo?

“Purtroppo sì. Se si percuote nido di vespe, quelle fuggono e si sparpagliano. Se il percuotitore non c’è più, le vespe tornano al loro nido-casa. E’ normale. E’ in natura. Al Qaeda è nata là, tra quelle montagne. L’attentato dell’11 settembre anche”.  

Tornerà il Medioevo in Afghanistan?

“Dipende da loro, dagli afgani. Se sanno ragionare o meno in termini di collettività. Dipenderà dalle donne afgane. Comunque noi abbiano lasciato 4000 km di strade, alfabetizzazione, assistenza sanitaria fino all’83% della popolazione; scuole ospedali, abbiamo costruito molto. Questo resterà. Vedremo per quanto e che uso ne faranno”. 

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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