La storia di chi alla guerra risponde con la non violenza. Reportage dal villaggio di Bi'Lin in Cisgiordania
Il villaggio è diventato famoso proprio grazie alle vittorie raggiunte attraverso la pratica della non violenza. Oggi tutto è vano e la vita è difficile: ecco cosa succede ogni giorno
Schiacciato tra il muro di separazione e l’insediamento coloniale israeliano di Modi'in Illit, lo storico villaggio palestinese di Bi’Lin non è facile da raggiungere. Da Ramallah bisogna prendere delle strade alternative, quella principale è chiusa da mesi. “Prima del sette ottobre a Bi'lin avevamo l'occupazione, le colonie, il muro. Non avevamo una vita normale, ma era la vita normale sotto occupazione. La situazione si faceva più tesa a volte, altre volte meno, ma in generale eravamo abituati a questa vita”, spiega Mohammed Khatib avvocato palestinese e leader del comitato di resistenza non violenta all’occupazione del villaggio di Bi’Lin. Il villaggio è diventato famoso proprio grazie alle vittorie raggiunte attraverso la pratica della non violenza. Nel 2007, infatti, l'Alta Corte israeliana ha imposto lo spostamento di un tratto del muro che, superando la linea armistiziale del 1949, rubava ai contadini e agli abitanti del villaggio 200 ettari di terreno. Una grande vittoria per il movimento pacifista che da allora ha continuato a organizzare manifestazioni a ridosso del muro, azioni dimostrative e tour informativi per gli attivisti internazionali.
Da tre mesi a questa parte, però, le circostanze non sono più le stesse. “Dopo il sette ottobre, la situazione è peggiorata ed è diventata più pericolosa. Ora l'esercito israeliano non permette più a nessuno di avvicinarsi a meno di 300 metri dal muro. Chiunque lo faccia viene immediatamente preso di mira dai cecchini. L’esercito è diventato più aggressivo e violento. Non ci sono limiti né restrizioni nel modo in cui usa la forza contro di noi, civili disarmati”, continua Khatib, “da quando è iniziata questa guerra, sono state ferite tre persone. Ci sono continue incursioni nel villaggio, quasi ogni notte e ogni giorno. Ieri, ad esempio, sono venuti qui a fare un altro checkpoint provvisorio”.
La vita difficile e il comportamento arbitrario dell'esercito israeliano
Li chiamano “cancelli” i checkpoint che l’esercito israeliano instaura come e quando vuole lui per bloccare - momentaneamente - la strada. A Bi’Lin ogni cancello significa maggiore isolamento, significa non sapere se il giorno dopo potrai andare al lavoro (tanti residenti a Bi’Lin lavorano a Ramallah), significa non sapere se potrai accompagnare tuo figlio a scuola. La vita quotidiana del villaggio è gestita dall’esercito israeliano. Così come è sempre l’esercito a decidere deliberatamente chi arrestare. Durante le incursioni, dal sette ottobre ad oggi, sono state arrestate circa 27 persone in un villaggio che conta poco più di duemila residenti. “Sono persone detenute con ordini amministrativi, cioè senza accuse o processi - spiega l’avvocato Khatib - si tratta di ordini amministrativi di detenzione della durata di sei mesi, che puntualmente vengono rinnovati”.
Questa situazione non riguarda solo Bi'lin ma tutta la Cisgiordania. Finora sono state arrestate più di 4500 persone solo negli ultimi tre mesi, il 90% di esse in detenzione amministrativa. La guerra a Gaza qui si traduce in incursioni continue, nuovi checkpoint, aumento della violenza dell’esercito e attacchi dei coloni che, se in passato agivano sotto la protezione dell'esercito, adesso sono loro stessi l'esercito. Indossano l'uniforme militare e usano armi ufficiali per attuare le politiche di espansione coloniale che il governo israeliano, dopo il sette ottobre, ha ulteriormente incrementato con la corsa alle armi e la distribuzione gratuita di circa 10.000 armi da fuoco agli insediamenti.
“In questa situazione, tra il genocidio in corso a Gaza, le forze militari incontrollate e il potere repressivo che gli israeliani stanno usando nei nostri confronti, sembra non esserci modo di parlare di non violenza. Basta scrivere qualcosa su Facebook che potresti essere arrestato, ferito o perseguitato dall'esercito e dalle forze di sicurezza. Possono arrestarti o spararti semplicemente per aver sventolato una bandiera o un cartello. Questa è la situazione in cui ci troviamo, non vogliono vedere alcun tipo di resistenza, nemmeno attraverso le parole o semplicemente con un’azione non violenta. Non vogliono che alzi la voce, non vogliono che nessuno alzi la voce. La situazione non è facile. Siamo costantemente in pericolo”.
A fatica, la lotta non violenta va avanti
Nonostante ciò, Mohammed Khatib e il comitato di resistenza non violenta continuano faticosamente a portare avanti la loro lotta. La zona a ridosso del muro non è più accessibile, ma lungo la strada che divide il villaggio dall’insediamento di Modi'in Illit sono stati piantati nuovi ulivi. “E’ il nostro simbolo di resistenza, per ogni palestinese ucciso pianteremo nuovi alberi, per ogni morte nascerà nuova vita”, dice Khatib indicando l’ulivo che sta crescendo rigoglioso nel punto in cui l’amico Bassem è stato ucciso da un cecchino israeliano.
“Quante persone devono morire tra i palestinesi perché il mondo si renda conto che questa situazione deve finire?" - Si domanda Khatim -. "La situazione si sta aggravando a causa della sempre più cieca violenza, proprio per questo continueremo a fare ciò che facevamo prima e ciò che sappiamo fare meglio, cioè mostrare quello che accade sul terreno provando a frenare l’aumento dell’uso della forza. È nostro compito far vedere al mondo cosa sta succedendo alle persone palestinesi che cercano semplicemente di difendere le proprie risorse vitali e i propri diritti fondamentali”.