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Il sasso tirato nello stagno del Medio Oriente: il primo passo di un processo di normalizzazione

Gli accordi bilaterali tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein (accordi di Abramo) potrebbero contribuire a ribaltare decenni di politica mediorientale e far svanire i sogni del Sultano

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
La firma degli accordi di Abramo alla Casa Bianca (Ansa)
La firma degli accordi di Abramo alla Casa Bianca (Ansa)

«Dopo decenni di divisioni e conflitti, ecco l’alba di un nuovo Medio Oriente». Sono queste le parole con cui Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha commentato la firma degli accordi bilaterali tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e l’emirato del Bahrein.

Chissà se il patriarca sarebbe stato contento?

Raggiunti grazie alla mediazione del genero di Trump, Jared Kushner, ai trattati economici tra lo stato ebraico e i due emirati del Golfo Persico è stato dato l’immaginifico nome di “accordi di Abramo”, il padre comune delle tre religioni monoteiste, ebraica, cristiana e islamica. Chissà se il patriarca di Ur avrebbe gradito, forse no. Ma il marketing politico ha le sue esigenze, a novembre negli Stati Uniti si vota e l’occasione era troppo ghiotta.

Tuttavia, iperboli a parte, la possibilità che gli accordi possano effettivamente rappresentare il primo passo di un processo di normalizzazione delle relazioni tra lo stato ebraico e quelli della penisola araba è concreta. Prima della cerimonia per la firma Trump ha dichiarato ai giornalisti che altre cinque nazioni potrebbero presto sottoscrivere accordi simili con Israele, lasciando intendere che tra queste, oltre Oman e Sudan, ci sarebbe anche l’Arabia Saudita. D’altronde in molti ritengono che il Bahrein non avrebbe apposto la firma senza il beneplacito della casa reale di Al-Saud.

Simboli e politica

Il coinvolgimento dell’Arabia Saudita in un qualche tipo di accordo con Israele segnerebbe un passo storico per le relazioni tra paesi arabi e stato ebraico e più in generale per il Medio Oriente.

L’aspetto più immediato sarebbe quello simbolico. Accordi simili a quelli stipulati con i due emirati del Golfo consentirebbero di collegare i tre luoghi più sacri dell’Islam. L’Arabia, il cui monarca per tradizione si fregia del titolo di “Custode delle due Sacre Moschee”, ospita i primi due, la Mecca e Medina. Israele ospita il terzo, la spianata delle Moschee a Gerusalemme.

I simboli sono importanti, in Medio Oriente forse più che in ogni altra area del pianeta, ma non sono tutto. A contare sarebbe anche l’impatto politico: l’Arabia è il centro dell’Islam sunnita ed esercita una forte influenza sugli altri stati sunniti che avrebbero a quel punto la legittimità politica e in qualche modo morale di stipulare accordi con il nemico di sempre: Israele.

Cerchi nell’acqua

Per quanto rilevante, tuttavia, le conseguenze sarebbero più ampie del reciproco riconoscimento. Come un sasso tirato nello stagno che crea i suoi bravi cerchi concentrici, gli accordi tra gli emirati del Golfo e Israele potrebbero avere effetti a largo raggio, soprattutto se dovessero arrivare a coinvolgere il regime saudita.

La formalizzazione di rapporti commerciali tra lo stato ebraico e i due paesi del Golfo, infatti, rappresenta una ratifica della crescente sintonia tra paesi sunniti, Israele e Stati Uniti nel contrastare il regime iraniano. Un’eventuale ulteriore accordo con l’Arabia sancirebbe in modo plateale quello che è già nei fatti, ovvero che per i sunniti il nemico non è più Israele, ma l’Iran sciita. Un vero e proprio arrocco sulla sempre complicata scacchiera del Medio Oriente.

D’altronde, come ha ricordato al New York Times Suzanne Maloney vice presidente della Brookings Institution commentando gli “accordi di Abramo”, «una parte non indifferente del merito per questo passo in avanti va riconosciuta al supremo leader dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. È lui che ha creato le condizioni perché i Paesi del Golfo e Israele avviassero già da tempo consultazioni riservate e cooperazione in materia di sicurezza”.

La stabilizzazione dei rapporti tra paesi sunniti e Israele, inoltre, depotenzierebbe ulteriormente la già ormai secondaria questione palestinese. Non a caso contemporaneamente alla cerimonia della firma degli accordi salve di missili sono state lanciate da Gaza alla volta di Israele.

E poi c’è la Turchia

Iran e territori palestinesi sono gli effetti più diretti, i cerchi più vicini. Poi ci sono quelli più lontani. Uno di questi potrebbe raggiungere la Turchia complicando la vita al suo presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Da anni l’obiettivo dichiarato di quest’ultimo è quello di portare la Turchia a rivestire il ruolo di potenza cruciale, se non egemone, nel Mediterraneo Orientale. È il sogno del cosiddetto “Neo-ottomanesimo”, che a inizio anno sembrava stesse divenendo realtà.

Comunque, ovunque e quantunque

Per inseguirlo Erdoğan ha perseguito politiche diverse, ambivalenti e ambigue nel corso del tempo: prima si è proposto come alfiere dell’islam sunnita e affidabile interlocutore di Israele, con il quale ha sviluppato legami non solo economici, ma anche militari; poi, con l’esplodere della guerra civile in Siria e il fallito colpo di stato del 2016, ha rafforzato l’intesa con gli sciiti di Hezbollah e l’Iran, nemici numero uno dello stato ebraico.

Nel frattempo ha perseguito e raggiunto un “equilibrio competitivo” con la Russia, con le inevitabili conseguenze nel rapporto con gli Stati Uniti, giocato con successo la sua partita in Libia, in contrasto con Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia, e rinfocolato le antiche tensioni con Cipro e la Grecia, e quindi con l’Unione Europea, sulla questione delle estrazioni di idrocarburi nel Mediterraneo. Insomma di tutto e di più, comunque, ovunque e quantunque.

I limiti della realtà o la realtà dei limiti

Questo schierarsi qui da una parte e lì dall’altra, senza alcuna visione che non sia quella di fare della Turchia la potenza dell’area, sta però rivelando i suoi limiti.

La Siria rischia di dimostrarsi un pantano dal quale potrebbe non essere facile venir fuori, mentre la partita in Libia sta entrando in una fase di stallo che potrebbe limitare di molto la portata dell’indubbio successo turco.  A ciò si aggiunge la freddezza crescente degli Stati Uniti, difficile da ignorare, e l’escalation nel confronto con Cipro e la Grecia sui giacimenti sottomarini del Mediterraneo.

La determinazione turca nel rivendicare il diritto di esplorare e sfruttare zone minerarie a ridosso delle coste cipriote ha infatti indotto la Francia a intervenire duramente, con tanto di invio di navi militari, rendendo inevitabile una presa di posizione europea, per quanto complicata dalla solita divergenza di interessi all’interno dell’Unione.

In altri tempi probabilmente il “sultano” avrebbe tirato dritto, ma in epoca di pandemia, con l’economia in crisi, ingaggiare un braccio di ferro imprevedibile con l’Unione Europea, principale partner commerciale di Ankara, potrebbe non essere la migliore delle idee.

La scelta difficile

Gli accordi bilaterali, presenti futuri, di Israele con le monarchie del Golfo complicano ulteriormente il quadro. Un riposizionamento del mondo sunnita guidato dall’Arabia Saudita nei confronti dello stato ebraico costringerebbe infatti la Turchia alla scelta tra due alternative, entrambe poco appetibili.

La prima sarebbe il rafforzamento dei legami con gli sciiti e la riscoperta della causa palestinese, il tutto in chiave anti-Arabia Saudita. Si tratterebbe di una scelta rischiosa che porterebbe la Turchia non solo in conflitto con i Paesi del Golfo, Qatar escluso, ma anche in rotta di collisione con gli Stati Uniti. La seconda alternativa sarebbe quella di abbassare i toni, e le pretese, e passare dal confronto al negoziato.

Che la scelta ricada sull’una o sull’altra possibilità, le ambizioni turche ne uscirebbero in ogni caso ridimensionate.

La matassa aggrovigliata

E così quella che all’inizio sembrava la trama sapiente di una tela di potere distesa dal Sultano su un’ampia parte del Medio Oriente, dal mare della Libia fino alle montagne della Persia, in realtà sembra stia divenendo una collezione di nodi sempre più intricati. Gli accordi di Abramo hanno aggrovigliato ulteriormente la matassa e non è detto che la si riesca a districare e a completare la tessitura.

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
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