"Non sappiamo più sognare": i profughi Dheisheh fra violenze e collasso economico. Il reportage
Viaggio nel campo che si trova a Betlemme, dove chi è scampato alla morte sopravvive fra arresti continui, checkpoint e una burocrazia folle
Il cielo è rosa dopo due giorni di pioggia, nella strada principale del campo profughi di Dheisheh un bimbo vende le semenze. Fa un freddo gelido, qualcuno dice che forse nevicherà. Sembra tutto normale eppure ieri notte l’esercito israeliano ha di nuovo fatto irruzione dentro il campo. “Arrivano qui, entrano dentro le case distruggono tutto e portano via qualcuno”, racconta Alì (nome di fantasia) mostrando il video della casa del cugino in cui l’esercito è entrato proprio ieri notte. “Dal sette ottobre ad ora fanno incursione praticamente ogni notte, noi ormai ci siamo abituati”, continua.
Una routine infernale
Il giorno dopo un’invasione la vita ricomincia sempre uguale, i negozi riaprono, i bambini escono a giocare, gli adulti ricostruiscono quello che l’esercito ha distrutto la sera prima. “Ogni notte arrestano qualcuno, poi magari lo rilasciano ma il giorno dopo stanno già arrestando un altro membro della sua stessa famiglia”, spiega Alì mentre fuma una sigaretta, “qualche sera fa sono entrati anche dentro il centro Ibdaa - centro culturale del campo - hanno distrutto tutto”.
Se esci da qui non sai se potrai ritornarci
Nessuno si salva dalla furia dell’esercito, che dall’inizio della guerra è sempre più violento all’interno dei campi profughi della Cisgiordania. Betlemme è completamente circondata da checkpoint, è molto difficile entrare o uscire dalla città e ancora di più raggiungere i campi profughi. Se esci dal campo non sai se tornerai a casa. “Siamo perennemente controllati - continua Alì - basta mettere un like o scrivere un post in solidarietà con Gaza che potresti essere arrestato”. Dall’inizio della guerra ad oggi sono state arrestate quasi 7mila persone in tutta la Cisgiordania senza né accusa né processo.
Camminare su macerie
Ma al di là dei numerosissimi arresti, delle detenzioni amministrative e delle sempre più numerose incursioni dell'esercito, a cui i palestinesi sono abituati da ben prima del sette ottobre, la cosa che più preoccupa a Betlemme sembra essere il collasso economico. Da più di tre mesi, infatti, gli operai palestinesi che lavoravano in Israele sono disoccupati. Dopo il sette ottobre sono stati ritirati tutti i visti di lavoro che permettevano alle persone di spostarsi dalle città della Cisgiordania ad Israele. “Qui a Dheisheh il 70% dei palestinesi lavoravano in Israele, la nostra è un’economia basata sui rapporti con gli israeliani. Non ci hanno lasciato altra scelta”, spiega Alì. Nel campo ben 1000 operai andavano ogni giorno in Israele per lavoro, il che vuol dire che 1000 famiglie su 5000 (più o meno) vivevano grazie al lavoro in Israele. “Io ho sempre avuto un permesso lavorativo - continua Alì - che mi permetteva di muovermi dalla Cisgiordania in Israele, dove lavoravo come muratore nelle case degli israeliani, dopo il 7 ottobre mi è stato ritirato”.
Nelle mani del "Coga"
Ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, infatti, non è permesso andare in Israele se non con un permesso che viene concesso - solitamente per motivi di salute o di lavoro - direttamente dal Coga, ufficio di coordinamento civile del Ministero della Difesa israeliano. Per ottenere questi visti possono passare diversi mesi, ma basta un attimo perché vengano ritirati in maniera totalmente arbitraria. Con l’inizio della guerra a Gaza questi permessi non sono più considerati validi dai militari israeliani che gestiscono il passaggio dai checkpoint. Il che vuol dire che è impossibile per i palestinesi che vivono in Cisgiordania poter andare in Israele, compresa Gerusalemme.
Considerando che l’unica altra fonte di sostentamento della città era il turismo, totalmente fermo dall’inizio della guerra, l’economia di Betlemme adesso è completamente in stallo. A risentirne sono prima di tutto coloro che da 75 anni vivono nei tre campi profughi della città. “Non riusciamo a capire che futuro avremo, non riusciamo a pensare, ogni giorno è peggio del precedente, siamo senza soldi, senza lavoro, fra poco anche noi saremo senza cibo. Siamo arrivati al limite”, continua Alì, “la gente non lavora più, il commercio non gira, non sappiamo che fine faremo. Tanti stanno provando a cercare lavoro all’interno delle nostre città ma qui non c’è niente. Il futuro è scuro, non riusciamo a pensare al futuro, è come se non ci fosse. Ci sentiamo fuori dal mondo, non sappiamo più sognare”.