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Instancabile contrasto alla guerra in Ucraina: il progetto di pace globale di Francesco

Il nuovo appello del papa agli organismi internazionali in una domenica non qualsiasi ma dedicata alla comunità congolese di Roma con la messa in san Pietro nel loro rito zairese per tanto tempo ostacolato dal Vaticano

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
Instancabile contrasto alla guerra in Ucraina: il progetto di pace globale di Francesco

Non è potuto andare in Congo e in Sud Sudan a causa del ginocchio, ma papa Francesco non ha rinunciato al sogno di pace e quindi ha portato l’Africa in Vaticano. Colori, suoni, preghiere del rito zairese – dall’antico nome della Repubblica Democratica del Congo – l’unico rito inculturato della Chiesa latina, hanno riempito di festa la Basilica vaticana con circa 2 mila fedeli della comunità cattolica congolese di Roma. C’è la Chorale Bondeko, ci sono le quattro lingue nazionali nelle letture e nelle preghiere, i suoni degli strumenti tradizionali.

Una celebrazione in armonia con quella presieduta dal cardinale Parolin segretario di Stato in visita oggi a nome del papa nella Repubblica Democratica del Congo visitata. Un vero segno dei tempi nuovi che con la comune volontà potrebbero finalmente spezzare il periodo dei conflitti in Africa, in Europa e in ogni parte del mondo. Pace e guerra sono infatti le alternative intorno alle quali si muove la politica di papa Francesco da quando è scoppiata la guerra in Ucraina e in tutte le salse possibili egli ha disegnato l’identikit del cristiano del nuovo millennio, attrezzato per essere segno di fraternità, agnello tra i lupi da quando “la pace non lascia in pace”.  

Francesco dialoga, per quanto può, in forma viva con la comunità che si appresta ad ascoltare la sua omelia. Bobóto [Pace]  dice il papa e la gente risponde Bondeko [Fraternità]. Bondéko, rimanda il papa e la risposta suona “Esengo [Gioia]”. E Francesco fa sua la parola Gioia per iniziare l’omelia: “ Questa vicinanza di Dio che è Gesù, è la fonte della nostra gioia: siamo amati e non siamo mai lasciati soli. Però la gioia che nasce dalla vicinanza di Dio, mentre dà pace, non lascia in pace. Dà pace e non ci lascia in pace, una gioia speciale. Provoca in noi una svolta: riempie di stupore, sorprende, cambia la vita… Da cristiani non possiamo accontentarci di vivacchiare nella mediocrità. E questa è una malattia; tanti cristiani, anche tutti noi abbiamo il pericolo di vivacchiare nella mediocrità, facendo i conti con le nostre opportunità e convenienze, vivendo alla giornata. No, siamo missionari di Gesù. Tutti siamo missionari di Gesù”.

Francesco spiega come essere missionari nel nostro tempo, alla maniera richiesta da Gesù ai suoi discepoli che li manda con tre sorprese per essere validi missionari. L’equipaggiamento, il messaggio, lo stile. Tre punti che sconvolgono la vita cristiana e il modo stesso di fare Chiesa ai giorni nostri. “Spesso – osserva il papa - pensiamo che le nostre iniziative ecclesiali non funzionino a dovere perché ci mancano strutture, ci mancano soldi, ci mancano mezzi: questo non è vero. La smentita viene da Gesù stesso. Fratelli, sorelle, non confidiamo nelle ricchezze e non temiamo le nostre povertà, materiali e umane. Più siamo liberi e semplici, piccoli e umili, più lo Spirito Santo guida la missione e ci fa protagonisti delle sue meraviglie… Mai senza il fratello, perché non c’è missione senza comunione. Non c’è annuncio che funzioni senza prendersi cura degli altri. Allora possiamo chiederci: io, cristiano, penso più a quello che mi manca per vivere bene, o penso ad avvicinarmi ai fratelli, a prendermi cura di loro?”. Quanto al messaggio “il Signore prescrive di presentarsi, in qualsiasi posto, come ambasciatori di pace. Un cristiano porta sempre la pace. Un cristiano si adopera perché entri la pace in quel posto. Ecco il segno distintivo: il cristiano è portatore di pace, perché Cristo è la pace. Da questo si riconosce se siamo suoi.

Se invece diffondiamo chiacchiere e sospetti, creiamo divisioni, ostacoliamo la comunione, mettiamo la nostra appartenenza davanti a tutto, non agiamo in nome di Gesù. Chi fomenta rancore, incita all’odio, scavalca gli altri, non lavora per Gesù, non porta la pace. Oggi, cari fratelli e sorelle, preghiamo per la pace e la riconciliazione nella vostra patria, nella Repubblica Democratica del Congo, tanto ferita e sfruttata. Ci uniamo alle Messe celebrate nel Paese secondo questa intenzione e preghiamo perché i cristiani siano testimoni di pace, capaci di superare ogni sentimento di astio, ogni sentimento di vendetta, superare la tentazione che la riconciliazione non sia possibile, ogni attaccamento malsano al proprio gruppo che porta a disprezzare gli altri…Mettere pace e ordine nel proprio cuore, disinnescare l’avidità, spegnere l’odio e il rancore, fuggire la corruzione, fuggire gli imbrogli e le furberie: ecco da dove inizia la pace”. Lo stile cristiano deve rispecchiare lo stile di Dio che è chiaro: “vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio.

Annunciare la vicinanza di Dio, ecco l’essenziale. La speranza e la conversione vengono da qui: dal credere che Dio è vicino e veglia su di noi: è il Padre di tutti noi, che ci vuole tutti fratelli e sorelle”. Si tratta di poche parole e tanta testimonianza nel superare atteggiamenti bellicosi. “Chi vive da agnello non aggredisce, non è vorace: sta nel gregge, con gli altri, e trova sicurezza nel suo Pastore, non nella forza o nell’arroganza, non nell’avidità di soldi e di beni che tanto male causa anche alla Repubblica Democratica del Congo. Il discepolo di Gesù respinge la violenza, non fa male a nessuno – è un pacifico -, ama tutti. E se ciò gli sembra perdente, guarda il suo Pastore, Gesù, l’Agnello di Dio che così ha vinto il mondo, sulla croce. Così ha vinto il mondo. E io – chiediamoci ancora – vivo da agnello, come Gesù, o da lupo, come insegna lo spirito del mondo, quello spirito che porta avanti la guerra? Quello spirito che fa le guerre, che distrugge”. Dialogica anche la chiusura dell’omelia: “Moto azalí na matói ma koyóka [Chi ha orecchi per intendere]”. Ayóka [Intenda], risponde l’assemblea. “Moto azalí na motéma mwa kondíma [Chi ha cuore per acconsentire]”. Andima [Acconsenta], risponde l’assemblea.

Francesco non si contenta di chiacchiere, chiede impegni cristiani. E li chiede uguali per tutti: alla comunità congolese chiede la stessa missione che chiede a tutti all’Angelus domenicale: “Se non c’è disponibilità alla fraternità, la missione evangelica non avanza”. Tutti, secondo la propria cultura, sono operai nella vigna del Signore. I segni dei tempi da interpretare indicano che la pace resta la condizione per un mondo più giusto e fraterno, già provato dalla lunga pandemia, dal degrado ambientale e dalla violenza distruttrice della guerra, tornata a combattersi anche sul suolo europeo. “Continuiamo a pregare per la pace in Ucraina e nel mondo intero- ha ripetuto caparbiamente Francesco nel dopo Angelus-. Faccio appello ai Capi delle nazioni e delle Organizzazioni internazionali, perché reagiscano alla tendenza ad accentuare la conflittualità e la contrapposizione. Il mondo ha bisogno di pace. Non una pace basata sull’equilibrio degli armamenti, sulla paura reciproca. No, questo non va. Questo vuol dire far tornare indietro la storia di settant’anni.

La crisi ucraina avrebbe dovuto essere, ma – se lo si vuole – può ancora diventare, una sfida per statisti saggi, capaci di costruire nel dialogo un mondo migliore per le nuove generazioni. Con l’aiuto di Dio, questo è sempre possibile! Ma bisogna passare dalle strategie di potere politico, economico e militare a un progetto di pace globale: no a un mondo diviso tra potenze in conflitto; sì a un mondo unito tra popoli e civiltà che si rispettano”.  Pochi giorni fa nella lunga e importante intervista all’agenzia internazionale argentina Télam, Francesco aveva ammonito che dalla crisi non si esce da soli ma prendendo l’altro per mano. “Quello che accade in Ucraina lo viviamo da vicino e per questo ci preoccupiamo, ma pensiamo al Rwanda 25 anni fa, alla Siria 10 anni fa, al Libano con le sue lotte interne o al Myanmar oggi.

Quello che stiamo vedendo sta accadendo da molto tempo. Una guerra, purtroppo, è una crudeltà al giorno. In guerra non si balla il minuetto, si uccide. E c'è un'intera struttura di vendita di armi che la favorisce. Qualcuno esperto di statistiche mi ha detto, non ricordo i numeri, che se non si fabbricassero armi per un anno, non ci sarebbe più fame nel mondo. Credo sia giunto il momento di ripensare il concetto di "guerra giusta". Ci può essere una guerra giusta, c'è il diritto di difendersi, ma il modo in cui il concetto viene usato oggi deve essere ripensato. Ho affermato che l'uso e il possesso di armi nucleari è immorale.

Risolvere le cose con una guerra significa dire no alla capacità di dialogo, di essere costruttivi, che gli uomini hanno. Questa capacità di dialogo è molto importante. Esco dalla guerra e passo al comportamento comune. Pensa a quando stai parlando con qualche persona e, prima che finisci, ti interrompe e ti risponde. Non sappiamo ascoltarci. Non permettiamo all'altro di dire la sua. Bisogna ascoltare. Ascoltare quello che dice, ricevere. Dichiariamo guerra prima, cioè interrompiamo il dialogo. Perché la guerra è essenzialmente una mancanza di dialogo”.

 

                         

                         

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
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