Le mire del sultano: il gioco di Erdogan nel Mediterraneo e i rischi per l’Italia
Il progetto è quello di un’egemonia politica, o più propriamente geopolitica. Ma c’è dell’altro
Le ultime vicende libiche sanciscono, semmai ce ne fosse bisogno, il ruolo acquisito dalla Turchia nel Mediterraneo Orientale. Un ruolo per ora di interlocutore indispensabile che ambisce però a sancire la sua egemonia sull’area. È il neo-ottomanesimo di Erdogan, il nuovo sultano.
Il progetto è quello di un’egemonia politica, o più propriamente geopolitica. Ma c’è dell’altro. Ripercorrendo gli avvenimenti degli scorsi due anni emerge una concatenazione di vicende che rivela un progetto preciso. Un progetto che potrebbe penalizzare il nostro paese.
Navi da guerra all’orizzonte
10 febbraio 2018, Mediterraneo orientale, al largo delle coste dell’isola di Cipro. Una nave italiana, la Saipem 12000, imbarcazione di sesta generazione per le trivellazioni a grandi profondità, si muove lentamente preparandosi alle operazioni. La nave, lunga 228 metri, larga 42 e capace di trivellare a una profondità di oltre 3.600 metri, batte bandiera delle Bahamas, ma è della Saipem, società del gruppo ENI che si occupa di perforazioni e infrastrutture per il settore energetico. La Saipem 12000 è lì per effettuare delle perforazioni per valutare presenza e ricchezza di giacimenti di idrocarburi nel cosiddetto “Blocco 3” all’interno della zona economica esclusiva (ZEE) di Cipro.
Mentre tutto procede come al solito, all’orizzonte compaiono inaspettatamente delle navi da guerra. Battono bandiera turca e puntano dritto verso la Saipem 12000. Poco dopo arriva l’avvertimento via radio: quella è una zona di competenza turca e alle navi straniere non è consentito effettuare operazioni di esplorazione e perforazione. Il 23 febbraio, dopo dieci giorni di stallo, la Saipem 12000 abbandona l’area. Nel corso dei mesi successivi e fino alla fine del 2019 sorte analoga toccherà a navi francesi e israeliane.
Come a Risiko
Passano dieci mesi, siamo a maggio 2019, la guerra in Libia infuria. All’inizio di aprile il generale Khalifa Haftar ha lanciato la sua offensiva contro il governo di Fayez al-Serraj. Dietro l’uno e l’altro ci sono due schieramenti internazionali che si fronteggiano pregustando il banchetto a base di idrocarburi da gustarsi sulla pelle della popolazione libica. Haftar è appoggiato da Russia, Francia ed Egitto, con i soldi dell’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti; al-Serraj è sostenuto tiepidamente dagli Stati Uniti e da un’Italia incerta e più convintamente dalla Turchia e dal Qatar. Due schieramenti che sono in realtà contrapposizioni di coppie rivali: Russia/Stati Uniti, Francia/Italia, Egitto/Turchia, Emirati Arabi Uniti/Qatar. Come a Risiko ognuno gioca la sua partita confidando che l’alleato del momento indebolisca il nemico così da riuscire a conquistare il proprio obiettivo.
“Eccoci Tripoli”
L’offensiva procede veloce, le truppe di Haftar, che avanzano da est e da sud verso Tripoli, sembrano destinate alla vittoria. Il generale proclama: “Eccoci, Tripoli. Eccoci, Tripoli. Eroi, l’ora è suonata, è venuto il momento”. Il presidente turco Erdogan però non gradisce e decide che è giunto il momento di dare un po’ di concretezza al suo sostengo al governo di al-Serraj. E così, senza troppo clamore, la Turchia fa recapitare a Tripoli droni e armamenti antiaerei per indebolire il dominio nei cieli di Haftar, il suo punto di forza, e dare un po’ di respiro alle truppe governative e alle fazioni alleate.
La mossa ha il suo effetto: lo slancio delle truppe del generale si affievolisce, l’inarrestabile avanzata si trasforma in un progressivo avvicinamento, il blitz è fallito, la guerra si allunga, la resa dei conti è rimandata. Il sultano ha rovinato i piani del generale, ha regalato tempo a Tripoli. E il tempo potrebbe rivelarsi il fattore decisivo perché l’avanzata si trasformi in guerra di posizione, la guerra di posizione in uno stallo e lo stallo in una tregua.
La spartizione
27 novembre 2019, Istanbul, Palazzo di Dolmabahçe. Nello splendido palazzo sul Bosforo costruito dal sultano Abdul Mejid a metà Ottocento, in una sala adornata da tende rosse con motivi bianchi e sedie tappezzate con lo stesso tessuto, siedono uno accanto all’altro il presidente turco Erdogan e quello del governo libico al-Serraj. Le espressioni non sembrano entusiaste, ma in realtà entrambi hanno di che essere soddisfatti. Molto soddisfatti. I due hanno appena siglato un accordo sulla delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE) ovvero sulle zone marittime sulle quali si hanno diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giacimenti petroliferi e di gas inclusi. L’accordo prevede in pratica che i due stati si spartiscano un’ampia striscia del Mediterraneo orientale che collega da sud a nord le coste della Libia a quelle della Turchia.
Con la sigla dell’accordo la Turchia ha piantato la bandierina, o meglio calato le boe, su un’ampia e ricca zona del Mediterraneo. Il governo libico in cambio ha ottenuto il pieno appoggio della Turchia e può finalmente sperare in una svolta nel conflitto con il generale Haftar.
Si vis pacem para bellum
2 gennaio 2020, il parlamento turco approva l’invio di uomini e mezzi in Libia per combattere al fianco del governo di al-Sarraj. La risoluzione è per ora una minaccia che potrebbe però presto tramutarsi in realtà.
La decisione di Ankara sembra l’abile mossa di un giocatore di poker che alza di molto la posta, sicuro delle sue carte. Il coinvolgimento diretto della Turchia nel conflitto determinerebbe un’escalation le cui conseguenze potrebbero essere imprevedibili, visto il groviglio di interessi internazionali che si confrontano in Libia. Andare a vedere le carte potrebbe essere molto costoso per tutti.
E la mossa funziona. Pochi giorni dopo, l’8 gennaio, il presidente turco Erdogan e quello russo Vladimir Putin, Sponsor l’uno di al-Serraj e l’altro di Haftar, a margine della cerimonia a Istanbul per l’inaugurazione del gasdotto Turkstream, emettono un comunicato congiunto sulla Libia. Il teso è un appello a tutte le parti affinché “dichiarino una tregua sostenibile, supportata dalle misure necessarie per stabilizzare la situazione sul terreno e normalizzare la vita quotidiana a Tripoli e nelle altre città”. Il tutto entro la mezzanotte del 12 gennaio.
La tregua
L’appello, meglio la richiesta, è una di quelle che non si possono rifiutare. E alla mezzanotte del 12 gennaio la tregua scatta. Non tutte le armi tacciono, non tutti si fermano, ma la tregua c’è e regge. Il giorno successivo al-Serraj e Haftar volano a Mosca per definire un accordo formale, ma mentre al-Serraj segue il copione scritto per lui da Erdogan, Haftar fa le bizze e a tarda notte lascia la scena. Tutto viene rimandato alla conferenza di Berlino che si terrà domenica 19 gennaio. La tregua, tuttavia, continua.
Nel frattempo…
Lo stesso giorno del voto del parlamento turco, il 2 gennaio 2020, ad Atene si tiene una cerimonia di tutt’altro tenore. Al tavolo vi sono i premier di Grecia, Israele e Cipro. Sono lì per firmare l’accordo per l’avvio della costruzione di Eastmed, un nuovo gasdotto da sei miliardi di euro che collegherà i ricchi giacimenti israeliani e quelli di Cipro a Creta, alla Grecia continentale per poi arrivare fino all’Italia. Il tutto senza dover passare dalla Turchia. Portata iniziale, 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno, per arrivare poi fino a 20 miliardi. Anno previsto di inizio attività, 2024.Tanto per dare un’idea, l’Italia consuma circa 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Il Leviatano e gli altri
A largo delle coste di Israele, infatti, sono stati trovati grandi giacimenti di gas naturale. Il più importante è quello noto con il nome di Leviathan, cui si aggiungono Aphrodite e Tamar. Ma non sono gli unici. Il Mediterraneo orientale, si sta rivelando un mare ricco di giacimenti. Al largo delle coste dell’Egitto c’è Zohr, il maggiore di tutti – 850 miliardi di metri cubi di gas stimati - dato in concessione all’Eni, poi ci sono Glaucus e Calypso al largo delle coste di Cipro. E proprio il mare cipriota sembra essere assai promettente. Quello stesso mare che la Turchia rivendica come di sua pertinenza. Una rivendicazione che prima era assai debole, fondata com’era sull’esistenza della Repubblica Turco-Cipriota, non riconosciuta da nessuno, e quindi sulla contestazione del diritto di Cipro a dare concessioni. Quelle che sono andate all’italiana Eni, alla francese Total, alle americane Exxon e Noble, all’anglo-olandese Shell, alla sudcoreana Kogas e all’israeliana Delek.
Unendo i puntini
È tempo di unire i puntini. Il mediterraneo orientale è ricco di giacimenti. Alcuni, per ora i più ricchi, sono nelle zone economiche esclusive di Egitto e Israele. Ma ci sono anche i giacimenti intorno a Cipro che sembrano promettenti. Lì la contesa è possibile. E così tra il 2018 e il 2019 il governo di Ankara invia le sue navi per bloccare qualsiasi attività di esplorazione da parte delle società concessionarie dei diritti di esplorazione. Ma la cosa potrebbe rivelarsi complicata, le basi giuridiche per l’azione turca sono inesistenti e innescare un braccio di ferro con le fregate italiane e francesi giunte in zona per proteggere le proprie navi potrebbe essere rischioso. È necessario trovare qualcosa di più solido che permetta di affermare le proprie pretese in virtù di diritti riconosciuti o quanto meno riconoscibili.
Ed ecco la mossa del cavallo. La Libia. La Turchia imprime nuova energia al suo appoggio al governo di al-Serraj. Un governo riconosciuto internazionalmente e in grado quindi legittimamente di negoziare trattati e fare concessioni. Al-Serraj, riconoscente, sigla un accordo internazionale con Ankara nel quale viene riconosciuta una zona economica esclusiva turca che arriva a metà del Mediterraneo e ingloba Cipro e i suoi giacimenti. Un accordo, inoltre, che tagliando in due le acque tra Turchia e Libia rende impossibile il progetto del gasdotto Eastmed a meno di non ottenere l’assenso del governo di Ankara.
Perché tutto ciò abbia un qualche respiro, occorre tuttavia che al-Serraj rimanga in sella, almeno per il prossimo futuro, e non venga sconfitto da Haftar. Ci vorrebbe una tregua. Quella sancita a gennaio.
La bandiera è piantata
Et voila. Il gioco è fatto. La bandiera è piantata. Il fatto compiuto. Ora starà agli altri cercare di toglierla. Ma non sarà facile. La definizione delle zone economiche esclusive è una materia scivolosa, non definita in modo preciso da alcuna convenzione. Servirà sedersi attorno a un tavolo. Tempi lunghi, lunghissimi. E nel frattempo è possibile che si giunga a un qualche tipo di accordo di fatto con i paesi europei coinvolti e le loro società, del tipo “questo a me, quello a te”. In fondo, come ha detto l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, “di certo non voglio provocare una guerra per trivellare dei pozzi”.
Il piano del sultano è ormai in fase di compimento. Non è detto che abbia successo perché gli interessi in gioco sono molti e molto forti. Tra questi vi sono anche quelli italiani. L’Eni infatti è concessionaria di alcuni dei giacimenti intorno a Cipro e il nostro paese sarebbe il destinatario finale del gasdotto Eastmed grazie al quale potrebbe diversificare le sue fonti di approvvigionamento e diminuire la quota importata da Libia da un lato e Russia dall’altro. Due dei paesi coinvolti direttamente in questa vicenda.
La partita continua
Intanto, giovedì 16 gennaio Erdogan ha annunciato che la Turchia "concederà le licenze e comincerà le trivellazioni, come previsto dall'accordo con la Libia, nel 2020". Già da quest’anno quindi la Turchia avvierà "attività di esplorazione e perforazione" nel Mediterraneo nelle zone inquadrate dall'accordo sulla demarcazione dei confini marittimi con la Libia. Il sultano va avanti. La partita continua.