[Il retroscena] La Libia chiede all’Italia 5 miliardi di dollari per fermare i barconi. Ecco i dettagli dell’affare

Il premier e il ministro degli Esteri di Tripoli hanno chiesto al capo della diplomazia Enzo Moavero Milanesi che li ha visti domenica e al presidente dell’europarlamento Antonio Tajani che è volato nel Paese ieri la stessa cosa: “Finanziate le opere previste dal trattato di amicizia firmato da Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi”, In cambio di una autostrada lunga 1700 km, un porto e un aeroporto i libici sono disposti a dare un mano a fermare i barconi. Non è detto che non sia conveniente: il Cavaliere aveva previsto una clausola che favorisce nei bandi pubblici le imprese italiane. La Libia è il quinto fornitore di petrolio

[Il retroscena] La Libia chiede all’Italia 5 miliardi di dollari per fermare i barconi. Ecco i dettagli dell’affare

Dieci anni dopo si riparte dall’accordo che fu firmato da Silvio Berlusconi e da Muammar Gheddafi. Il primo fortemente ridimensionato e in attesa di potersi ricandidare alle Europee, il secondo ucciso dai ribelli durante un raid nel 2011, sono oggetto di una specie di rivalutazione. Era il 2008 quando i due siglarono a Bengasi, la città che era stato il quartier generale del governo italiano durante l’occupazione coloniale dal 1911 al 1943, quello che fu pomposamente chiamato “Trattato di amicizia e cooperazione”. In realtà era un accordo commerciale che il primo, da buon uomo di affari, aveva deciso di sottoscrivere con il dittatore, che aveva preso a ricattare l’Italia proprio utilizzando come “arma sporca” i barconi carichi di richiedenti asilo. Poi le cose sono andate come sono andate e quell’accordo sembrava sepolto, come quella stagione politica. Invece no. Dall’altro lato del Mediterraneo hanno ricominciato il pressing. Consapevoli che il governo italiano non può reggere oltre la pressione delle ondate migratorie limitandosi ai proclami, e che per Matteo Salvini e i suoi ministri fermare gli sbarchi è la priorità su cui si stanno giocando la faccia, i libici sono tornati alla carica. Domenica sera il premier libico Fayez Al Serraj e il ministro degli Esteri Mohammed Taher Siyala hanno accolto a Tripoli il capo della diplomazia italiana, Enzo Moavero Milanesi. E a lui, in cambio di un aiuto supplementare per risolvere l’emergenza migranti, hanno rivolto l’invito a “rinnovare il trattato di amicizia tra Italia e Libia”.

In aggiunta, le autorità libiche avrebbero anche garantito condizioni di sicurezza per il rientro delle aziende italiane in Libia, cogliendo l’interesse di molte imprese a essere presenti su quel mercato. Che i due non ci abbiano solo provato, ma che quell’invito sia parte di una strategia precisa, lo dimostra il fatto che la medesima richiesta è stata recapitata all’indomani, cioè ieri, ad Antonio Tajani. Il presidente dell’Europarlamento, da pochi giorni anche vicepresidente di Forza Italia, è stato in missione a Tripoli e, parlando con Al Serraj e Siyala, ha avuto conferma che i libici vogliono proprio riaprire quel file. “La Libia dovrà diventare garante per la stabilità nell’area del Mediterraneo del nord Africa”, ha detto l’eurodeputato. “Servono più risorse Ue per la cooperazione, per il rafforzamento del controllo delle frontiere meridionali e per la Guardia costiera”.

Chi ha preso le redini del Paese che fu di Gheddafi punta sul Trattato e pretende però che venga rispettato alla lettera. Ma che cosa conteneva quell’accordo, che fu poi celebrato con una visita ufficiale del dittatore libico a Roma, non molti mesi prima dell’attacco francese e della sua uccisione? Prevedeva che l’Italia investisse una grande quantità di capitali per costruire infrastrutture e opere pubbliche in Libia, e che a realizzarle fossero innanzitutto imprese italiane, che sarebbero state favorite nei bandi scritti per l’assegnazione. L’opera più ingente è la costruzione di un’autostrada litoranea lunga la bellezza di 1700 km - cioè più dell’Italia - dal confine tunisino a quello egiziano sul tracciato della via Balbia, la vecchia strada intitolata al gerarca fascista Italo Balbo, nominato da Mussolini governatore della Tripolitania e Cirenaica e morto in un incidente aereo piuttosto sospetto da queste parti, nei cieli di Tobruk. Il costo stimato per la realizzazione dell’opera è mostruoso: 5 miliardi di dollari in 20 anni. Tra le altre opere da realizzare a spese degli italiani come “risarcimento” per il periodo dell’occupazione coloniale, la ristrutturazione dell’aeroporto internazionale di Tripoli e del porto di Zawara, tristemente noto per essere quello da cui prendono il mare molti dei barconi carichi di disperati alla volta dell’Italia, e nei pressi del quale ci sono stati moltissimi naufragi. In più, il “vecchio” trattato disponeva anche la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, la cui realizzazione era stata affidata ad una società - italiana - del gruppo Leonardo.

Il Trattato non era rimasto solo sulla carta: nel 2013 Impregilo aveva avviato i lavori ma era stata costretta a lasciare il Paese per lo scoppio della guerriglia e sono pronte per tornare nella Regione del Nord Africa anche il consorzio Aeneas e l’impresa Piacentini, già attive nella Libia di Gheddafi. Prima, però, ci sarebbe da risolvere un “piccolo” problema: il credito di circa 600 milioni di dollari vantato con gli enti locali libici dalle società che hanno aperto i cantieri, di cui si è recentemente fatta portavoce Confindustria.

"E’ utile che il Trattato tra noi e la Libia venga riattivato al più presto, anche perché incide concretamente sul versante dell'emergenza migratoria”, dice Franco Frattini. Ex capo della diplomazia italiana, oggi presidente della Terza sezione del Consiglio di Stato e della Società italiana per l’organizzazione internazionale, sostiene che la richiesta venuta dai libici “va immediatamente accolta”. In cambio delle risorse, la Libia consentirebbe di realizzare sul suo suolo nazionale i famosi hot spot per scremare i richiedenti asilo. Al Serraj aveva proposto questo scambio anche a Marco Minniti nel gennaio del 2017, ma il governo di Paolo Gentiloni non aveva la forza - e le risorse - per dire di sì. Oltretutto Libia e Italia hanno ancora dei contenziosi aperti antichissimi. Subito dopo l’avvento al potere di Gheddafi, il 1° settembre del 1969, tutti gli italiani furono cacciati e le loro proprietà confiscate. I rapporti tra i due Paesi, così fisicamente vicini, raggiunsero il punto più basso nel 1986 quando fu lanciato un missile che arrivò a Lampedusa. Poi, a poco a poco, il riavvicinamento e, dopo una lunghissima trattativa, la pacificazione e l’accordo, grazie al quale Berlusconi aveva strappato, in cambio degli investimenti pubblici dell’Italia nel Paese africano, condizioni di assoluto vantaggio per le aziende del Belpaese, che avrebbero guadagnato quote di mercato approfittando di agevolazioni fiscali e dell’esenzione da tasse doganali.

Ha senso, oggi, riprendere quel trattato e costruire strade, ponti e porti in Libia? Un dossier realizzato appositamente in quell’occasione dal Centro Studi della Camera dei deputati pareva suggerire di sì. “La Libia rimane il quinto fornitore mondiale dell’Italia con il 4,6 per cento sul totale delle nostre importazioni di greggio, mentre il nostro Paese si attesta al primo posto tra gli esportatori verso il Paese africano”, si poteva leggere nello studio. E ancora: “L’Italia è il terzo investitore tra i Paesi europei, se si escludono gli investimenti petroliferi, ed il quinto a livello mondiale. A testimoniare l’importanza di questi rapporti vi sono le oltre 100 imprese italiane che mantengono una presenza stabile sul territorio libico e che operano prevalentemente, oltre che nel settore petrolifero e delle infrastrutture, nei settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni”. Il cuore delle relazioni commerciali tra Italia e Libia resta l’Eni. “Il gruppo opera in Libia sin dal 1959 e gli è sempre stato garantito un rapporto privilegiato, che ha consentito all’azienda di continuare ad operare senza subire il processo di nazionalizzazione dell’industria petrolifera imposto da Gheddafi e di assicurarsi periodicamente il rinnovo dei contratti Exploration and Production Sharing Agreement (EPSA) con la National Oil Corporation (NOC), la compagnia petrolifera nazionale della Libia”. Con la firma dell’accordo Gheddafi-Berlusconi, nel giugno 2008, “il rapporto era stato prolungato fino al 2042 per quanto riguarda la produzione petrolifera e fino al 2047 per quella di gas”, rilevano i tecnici. Non c’è solo il petrolio, però: buona parte delle forniture militari ai libici prima di quell’accordo, del resto, erano italiane: dieci elicotteri di Agusta-Westland, un aereo Alenia, alcuni propulsori Aermacchi.