La valle del giordano: una grande e bellissima prigione
Le comunità beduine palestinesi tra i coloni, l’esercito e il furto dell’acqua
La luna sorge lentamente dietro le pietre bianche del confine giordano, la luce penetra timida da una fessura della tenda, dentro Abo Saqr fuma una sigaretta. “Gli israeliani hanno distrutto la mia casa trentadue volte in due settimane, ma l’ho sempre ricostruita. Questa terra è casa mia, sarei come un pesce fuori dall’acqua in qualsiasi altro posto”.
Abu Sacker è un beduino palestinese che vive nella Valle del Giordano da 78 anni. La sua famiglia vive in tende che un tempo spostavano ciclicamente, in base alle stagioni e alla coltivazione delle terre, in tutta la valle. Da decenni ormai si muovono solo dentro stretti confini, di fronte alle luci delle città giordane e in mezzo ai fili spinati delle colonie israeliane. “Più in là della collina ci è vietato andare”, spiega l’anziano, indicando un monte distante qualche decina di metri da lui. Dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967, Israele ha occupato parte di questa terra e nel 1968 è sorta qui la prima colonia israeliana nella Cisgiordania.
Sfratti, attacchi e demolizioni
“Da decenni viviamo sotto continui sfratti, attacchi dei coloni e demolizioni forzate”, continua Abo Saqr. “Per avere un metro cubo d’acqua potabile dobbiamo pagare 25 shekel ad Israele, non abbiamo più accesso alle nostre risorse idriche”. Da anni, infatti, Israele porta avanti una politica ben precisa nella Valle del Giordano: dichiara dei pezzi di terra ”riserve naturali” o “zone di addestramento militare”, di fatto mai utilizzandole come tali, per poter poi notificare demolizioni e sfratti alle famiglie palestinesi che ci vivono, e negli stessi luoghi costruire nuove colonie. D’altra parte l’85% dell’acqua della zona è prelevata dalla ditta israeliana Mekorot ed utilizzata nelle grandi coltivazioni israeliane e per la vita dei coloni, privando di fatto le famiglie palestinesi dell’acqua potabile, ma anche di quella necessaria alla vita degli animali e delle proprie coltivazioni.
Costretti a spostarsi
Questo ha costretto parte della popolazione palestinese che viveva qui a spostarsi e molti agricoltori ed allevatori palestinesi a cercare altri impieghi. Oggi alcuni di loro lavorano nelle colonie israeliane, sfruttati e sottopagati, altri si sono trasferiti nelle città della Cisgiordania.
I villaggi sono sempre meno popolati, nella comunità di Al Dadiha (quella in cui vive Abi Saqr), dove vivevano 3000 famiglie nel 1975, adesso vivono 150 persone, circa 50 famiglie. “La riduzione della libertà di movimento, sommata alla privazione dell’acqua, ci costringe ad essere molto più sedentari di quanto non lo fossimo prima - spiega Abo Saqr - questo ha influito negativamente sulla qualità del raccolto e sui pascoli, e ovviamente sulla nostra possibilità di sopravvivere qui. Quattro anni fa tutti i nostri animali si sono ammalati a causa di un virus. I virus nascono dall’impossibilità di pulire i luoghi dove vivono gli animali e dalla sedentarietà a cui siamo stati obbligati”.
Ma a soffrire le conseguenze di un’occupazione lunga ormai decenni, non sono soltanto i palestinesi e i propri animali, ma anche la flora e la fauna della zona. Negli ultimi anni sono scomparse diverse specie di uccelli e di piante dalla Valle del Giordano a causa dello sfruttamento intensivo delle risorse idriche e, più in generale, dello sconvolgimento del ritmo naturale della vita in questo pezzo di terra.
“Ultimamente siamo sempre più isolati - continua Abo Saqr - dopo il 7 ottobre hanno chiuso tante strade e sono sorti numerosi nuovi posti di blocco israeliani”. Con lo scoppio della guerra a Gaza i bambini della comunità di Al Dadiha e di diversi villaggi della Valle del Giordano non possono più raggiungere la scuola e spesso diventa impossibile accedere all’ospedale più vicino, che si trova a circa venti minuti di macchina, nella città di Tubas. Intanto arriva il freddo, Abo Saqr accende il fuoco, chiama i figli e i nipoti per la cena. Domani inizia un’altra giornata “in questa grande e bellissima prigione”.