Italiani fuori da Gaza, ma nella striscia restano più di due milioni di persone sotto le bombe. La testimonianza di Jacopo Intini
Uno dei quattro cooperanti che hanno varcato il valico di Rafah pensa a chi ancora vive l’incubo sotto i bombardamenti
“La nostra uscita da Gaza non è una vittoria. Nella striscia ci sono ancora due milioni di persone bloccate sotto i bombardamenti e senza vie di fuga” dichiara Jacopo Intini, uno dei quattro cooperanti italiani usciti mercoledì scorso dal valico di Rafah. Le porte del valico si sono aperte lasciando uscire dalla Striscia di Gaza 400 tra stranieri e persone con doppio passaporto e oltre 76 feriti gravi. Giovedì altre persone sono state fatte passare verso l’Egitto, ma sempre solo feriti gravi o persone con due passaporti.
Gli oltre due milioni di residenti a Gaza, invece, restano bloccati tra le bombe, senza poter scappare, in una guerra che non sembra vedere spiragli per un cessate il fuoco e che probabilmente sarà destinata a continuare ancora a lungo. “La mattina del 7 ottobre stavo nella nostra guest house e ho subito capito che sarebbe successo qualcosa che non era mai successo prima. Questa è la terza escalation che vivo da quando sto nella striscia ma la prima con livelli di devastazione così alti”, racconta Intini, cooperante del Ciss, associazione siciliana che lavora da anni in Cisgiordania e a Gaza.
“Ciò che è successo il 7 ottobre è avvenuto in maniera totalmente inaspettata - continua Intini - il contesto di Gaza è un contesto imprevedibile, ci sono momenti di apparente quiete che possono cambiare repentinamente. La cosa importante da dire è che gli eventi del 7 ottobre sono il prodotto di una situazione di costante tensione che va avanti da anni, nell’indifferenza della comunità internazionale”.
Il 12 ottobre è arrivato l’ordine di evacuazione per chi si trovava al nord di Gaza. Jacopo Intini e altri cooperanti italiani erano a Gaza City, dopo essersi già spostati più volte, hanno faticosamente deciso di dirigersi a sud: “Tanta gente ha scelto di non andarsene, è molto difficile per le persone di Gaza lasciare le proprie case per la paura di non poter più tornare. Altre hanno deciso di andare a sud, il che ha significato lasciare l’unica zona di comfort che era la propria abitazione, i propri ricordi rinchiusi nelle proprie case.
A Gaza non ci sono posti sicuri in queste situazioni, quindi la tua casa e i tuoi ricordi diventano le uniche certezze”. Inoltre molti dei posti considerati ‘sicuri’ nel sud della striscia sono stati bombardati, e se non sono stati colpiti sono in condizioni umanitarie sempre peggiori. Intini racconta: "Abbiamo visto scuole che ospitavano più di tremila persone, anche gente che aveva necessità medico sanitarie specifiche. Altre persone si sono spostate in case di parenti o amici, o in ospedali che ospitano anche sfollati. La situazione degli ospedali è al limite. Anche gli ospedali sono sovraffollati. Molti ospedali non possono lavorare per la mancanza di carburante. Tanti medici hanno fatto operazioni al buio, senza elettricità. Mancano i medicinali, gli anestetici, molte operazioni sono state effettuate senza anestesia. Alcune donne hanno subito parti cesarei senza farmaci anestetici”.
La situazione si è ulteriormente aggravata il 9 ottobre con la chiusura totale di acqua ed elettricità e il 27 quando sono state completamente interrotte le telecomunicazioni. “Eravamo totalmente isolati, non sapevamo cosa stesse accadendo intorno a noi, ma soprattutto è stato difficilissimo accertarsi delle condizioni dei nostri colleghi, la maggior parte sfollati nel nord di Gaza”. Per Jacopo Intini e i suoi colleghi italiani la decisione di evacuare in Egitto è stata molto difficile ma inevitabile date le condizioni di sicurezza ma soprattutto l’impossibilità di operare sul campo e offrire supporto alla società civile. “Noi usciamo ma con l'intenzione di tornare quando tutto sarà finito - speriamo il prima possibile - perché ci sarà molto da fare!”, conclude Intini.