La crisi dell’egemonia americana: chi vince e chi perde in un mondo in cui sono saltate le regole
Mentre gli Stati Uniti sono in grave difficoltà e cercano di evitare l’esplosione di una guerra, mentre la Russia cerca di profittare da questa guerra, cercando comunque di evitare un’escalation che porti gli Stati Uniti in Medio Oriente, la Cina si trova una posizione intermedia.
I fronti caldi come Russia e Ucraina, Israele e Hamas e Taiwan e Stati Uniti sono il sintomo della crisi dell’egemonia americana. Non c’è più qualcuno che detta le regole del gioco, siamo in uno stato di disordine che si orienta verso il caos. Le regole sono saltate tutte.
Di fronte all’inevitabile volontà di vendetta dello Stato di Israele agli orrori del 7 ottobre 2023, gli Stati Uniti sono intervenuti quasi immediatamente. Innanzitutto, dimostrando di esserci, mettendo quindi due gruppi portaerei al largo di Gaza, cosa che non si era mai vista prima, inviando dei marines in zona e contemporaneamente avvertendo il governo Netanyahu che non doveva esagerare perché il rischio di un’esplosione al livello regionale e di uno scontro che coinvolgesse l’Iran era troppo grande. Ciò che è paurosamente chiaro è che in uno scontro tra Israele e Iran, gli Stati Uniti non potrebbero rimanere a guardare.
Il rischio per Israele – e per tutto il mondo – è che al fronte di Gaza si aggiunga quello della Cisgiordania o/e quello con il Libano dove impera Hezbollah, movimento islamista che si pretende difensore della Palestina ma è essenzialmente uno strumento dell’Iran nella regione. Dando uno sguardo alla prospettiva iraniana e considerando la prospettiva imperialista derivante dalle origini persiane di questo Stato, risulta chiaro che l’Iran aspira ad un’influenza regionale che va dall’Afghanistan occidentale fino al Mediterraneo, tenendo come perno Teheran, mantenendo una forte influenza in Iraq e in Siria, e per l’appunto in Libano attraverso Hezbollah, con una dorsale che va da Herat – Afghanistan – fino a Beirut – Libano – dal cuore dell’Asia centrale al Mediterraneo.
Questa realtà persiana è vista da Israele come il Nemico per eccellenza. I Paesi arabi sono stati più o meno addomesticati, è possibile affermare infatti che dal punto di vista strategico né l’Egitto, né l’Arabia Saudita, né la Giordania vogliono minacciare Israele. Quello che però ha ottenuto Hamas con l’attacco del 7 ottobre, non è solo un effetto tattico, cioè il mettere in evidenza la debolezza e l’inefficienza delle forze armate di Israele, dando un colpo fortissimo in termini di morale e fiducia dell’opinione pubblica.
Insieme a questo è stato messo in crisi il rapporto che si stava strutturando con Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita sulla scia degli Accordi di Abramo. Accordi di carattere economico commerciale, certamente, ma con un retrogusto atomico, nel senso che parte di questi accordi sponsorizzati dall’America prevedevano come concessione all’Arabia Saudita la possibilità di installare centrali nucleari civili, le quali, data la natura sequenziale del nucleare civile e militare, possono preludere all’effettività di una centrale nucleare militare. Questo naturalmente altererebbe i rapporti di forza nella regione a sfavore dell’Iran.
I rischi derivanti da un eventuale escalation regionale del conflitto tra Hamas e Israele sono innanzitutto di natura economica. Basti pensare al tema degli approvvigionamenti energetici che si rifletterebbe sia sull’Europa sia sulla Cina. La posizione americana sul conflitto è chiara: lontani da un’escursione di terra a Gaza perché potrebbe preludere ad una vera e propria guerra regionale con implicazioni mondiali.
L’America vive una profonda crisi d’identità che divide al suo interno la società americana e che rende poco funzionali e poco rispettate le sue istituzioni – usando un eufemismo – basti pensare a quello che è successo a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021. E soprattutto, l’opinione pubblica è assolutamente contraria a sostenere una guerra che potrebbe prevedere anche l’invio di soldati e l’allocazione di soldi pubblici ad una guerra in Medio Oriente con morti e feriti americani. Quindi Biden, cosa mai successa prima, è intervenuto direttamente a Gerusalemme, partecipando anche ad un consiglio di guerra, consigliando prudenza e limitazione della risposta armata.
Il suo interlocutore, Benjamin Netanyahu, però dal punto di vista politico non è più forte come prima. Alle profonde controversie interne legate alle riforme che miravano a colpire il potere giudiziario e la corte suprema a favore dell’esecutivo, occorre aggiungere il fallimento del 7 ottobre che è in ultima istanza imputabile a lui. Netanyahu stesso ha dichiarato che alla fine della guerra bisognerà fare i conti “dentro casa” e che questo riguarda anche lui, ma anche i capi delle forze armate e dell’intelligence israeliana.
Tutto ciò ha delle profonde conseguenze su scala globale, nel contesto della guerra grande, c’è una potenza che oggi gode, ovvero la Russia. Infatti, il conflitto tra Hamas e Israele ha oscurato completamente ciò che accade in Ucraina, dove la guerra è ancora in corso ma la controffensiva ucraina è ferma e semmai sono i russi a fare qualche conquista in territorio ucraino. Quindi la Russia è adesso all’apice della sua sicurezza dall’inizio del conflitto, in questa fase non teme più una sconfitta in Ucraina o la disintegrazione della Russia. Si presenta invece come il campione del sud globale, contando sull’associazione ideologica all’Unione Sovietica, paese comunista che appoggiava movimenti comunisti e nazionalisti anti-americani durante la guerra fredda, facendo inoltre leva su una caratteristica attribuibile proprio al regime di Putin, ideologia tradizionalista del “Dio, patria, famiglia” che rifugge il progresso del mondo liberale e dei suoi eccessi.
L’altro fronte importante, nel tabellone del Risiko 2023, è quello cinese. Mentre gli Stati Uniti sono in grave difficoltà e cercano di evitare l’esplosione di una guerra, mentre la Russia cerca di profittare da questa guerra, cercando comunque di evitare un’escalation che porti gli Stati Uniti in Medio Oriente, la Cina si trova una posizione intermedia.
Se da un lato, la contemporaneità dei conflitti a Gaza e in Ucraina mette in grave crisi la percorribilità della via della seta, ovvero i percorsi commerciali, economici e strategici che vogliono legare la Cina all’Africa, al Medioriente e all’Europa. Dall’altro lato, la Cina conta di poter calcolare nelle proprie equazioni un impegno americano verso un atteggiamento più riflessivo e negoziale nei suoi confronti. A conferma di ciò, sono in corso da diversi mesi incontri a tamburo battente tra esponenti importanti di Stati Uniti e Cina, i quali rendono più improbabile uno scontro tra le due potenze, considerando soprattutto che nessuna delle due è in grado di affrontare un tale scontro.
Se, come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde, chi ci guadagna e chi soffre, mentre scrivo e rifletto su cosa succede nel mondo, mi risulta inconcepibile che ancora oggi la morte e la distruzione siano considerate un mezzo per raggiungere un fine.