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[L'intervista] "Sono stata una schiava dell'Isis vi racconto cosa mi hanno fatto. Le donne peggio degli uomini"

Parla Lamya Haji Bashar la giovane yazida ridotta in schiavitù dai jihadisti, ospite in questi giorni a Roma della Camera dei deputati.

Alberto Negridi Alberto Negri   
[L'intervista] 'Sono stata una schiava dell'Isis vi racconto cosa mi hanno fatto. Le donne peggio...
Lamya Haji

“Le donne dell’Isis sono state quasi peggio degli uomini che mi hanno violentato e stuprato”, mi detto Lamya Haji Bashar la giovane yazida ridotta in schiavitù dai jihadisti, ospite in questi giorni a Roma della Camera dei deputati. Sullo schermo della tv vediamo scorrere in queste ore le immagini dei combattenti del Califfato e delle loro famiglie che escono dall’assedio della loro ultima roccaforte a Baghouz. Cerca pace e giustizia Lamya, insignita del premio Sakharov, ma forse difficilmente le troverà. Anche la cronaca la insegue come in una fuga senza fine da un orrore che non si può e non si deve dimenticare.

Sulle sponde dell’Eufrate sono stati ritrovati fosse comuni con centinaia di copri di vittime dell’Isis, tra cui molte donne yazide con le teste decapitate che erano state rapite nel Nord dell’Iraq nell’agosto del 2014. Ero lì quell’estate mentre il Califfato avanzava nel Kurdistan iracheno, nel Sinjar (Shingal) e nel villaggio di Kocho da dove vengono sia Lamya che Nadia Murad, Nobel per la pace. “Sto seguendo con apprensione le notizie perché forse tra quei corpi ci sono parenti e amiche”, dice Lamya.

Aveva 15 anni quando i jihadisti entrarono a Kocho: “La prima cosa che fecero fu trascinarci in una scuola e separare le donne e le bambine dagli uomini. Prima sgozzarono mio padre, mia madre e i miei fratelli poi mi portarono via verso Mosul”.

Quando nel luglio 2017 Mosul fu liberata raccogliemmo sul posto le testimonianze della vita sotto il Califfato: le donne arabe e yazide violentate uscivano dalle macerie della città in silenzio, tenendo in braccio i figli dei jihadisti cui il l’Isis aveva persino dato una carta di identità dello Stato Islamico. Dovevano ancora nascondersi e sopravvivere.

Il volto di Lamya porta le cicatrici di una granata esplosa mentre tentava la fuga ma i segni dentro la sua anima sono ben più profondi e visibili.

Gli Yazidi, circa 400mila, erano considerati dai jihadisti degli eretici da uccidere, convertire a forza (contro ogni dettame dell’Islam) o da impiegare come schiavi. La loro religione ha migliaia di anni, sono monoteisti e si considerano i discendenti di Adamo. Ma è una religione endogamica, - gli yazidi si sposano tra di loro _ e dai caratteri fortemente esoterici, questo ha sempre suscitato diffidenza da parte di musulmani e cristiani che li hanno accusati, ingiustamente e senza alcun fondamento, di essere “adoratori del diavolo”. Ai tempi di Saddam Hussein nel centro di Mosul aveva incontrato uno dei loro capi che faceva il dentista: vivevano in maniera alquanto schiva ma come altre minoranze religiose come cristiani e mandei non erano perseguitate.

Le montagne del Nord dell’Ira sono state nei secoli la lor vera protezione degli yazidi, quando l’Isis le ha violate per loro è stata la fine.

“Fui venduta cinque volte - racconta Lamya - e ogni volta picchiata, violentata e torturata dai miei aguzzini. L’ultimo fabbricava autobombe e cinture esplosive. Ho vissuto con lui per due mesi. Ho provato a fuggire, sono stata ripresa e picchiata. Mi ha fatto di tutto. Mi obbligava anche ad aiutarlo nel suo lavoro. Sono stata spogliata, umiliata, trattata come una animale dalle altre donne. Sono riuscita a fuggire tre mesi dopo il mio rapimento altrimenti forse non sarei qui a raccontare la mia storia”.

Lamya ora chiede giustizia. “Vorrei che il genocidio degli yazidi fosse portato davanti ai tribunali, alla Corte penale internazionale. Ci sono migliaia di uomini giunti da tutto il mondo che hanno combattuto al fianco dello Stato Islamico che adesso sono rientrati nei loro Paesi. Ebbene credo che andrebbero processati per i loro crimini, per accertare le lor responsabilità insieme alle donne che li hanno aiutati e sono state complici in queste atrocità”. E aggiunge: “Vedo che oggi escono dall’assedio e chiedono di tornare a casa, mi domando se sia giusto e se questa sia davvero giustizia. ”. Un interrogativo che forse dovremmo farci anche noi. 

Alberto Negridi Alberto Negri   
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