L’inferno di Marjan Jamali in carcere per “scafismo” e separata dal figlio di 8 anni - La storia
La donna si difende : “Ho pagato 9mila dollari per me e 5mila per mio figlio solo per cercare una vita migliore in Europa”. Oggi l’udienza per chiedere i domiciliari
Marjan Jamali, 29 anni, è arrivata in Italia il 27 di ottobre, sulle coste di Roccella Ionica. Con lei altri 100 migranti circa, ma soprattutto il suo bambino di 8 anni. Da allora l’ha potuto riabbracciare solo lunedì 12 marzo, dopo cinque lunghi mesi, dentro un'aula del tribunale di Locri. Dopo due giorni dal loro arrivo sulle coste italiane, infatti, i due sono stati separati. La madre, sotto l’accusa di scafismo, è stata portata nel carcere di Reggio Calabria, il figlio nel comune di Camini, affidato ad una famiglia afghana.
"Quando hanno approvato l’accesso del figlio in aula, lui è corso dalla madre, lei si è alzata con le lacrime agli occhi, e l’ha abbracciato. Sono stati 15 minuti uno nelle braccia dell’altro, è stata una scena estremamente commovente” racconta l'avvocato della donna, Giancarlo Liberati. Avvocato che casi di presunti scafisti ne ha seguiti tanti, ma, come lui stesso dichiara, un caso come questo non l’aveva visto mai.
“Quello di Marjan - sostiene il legale - è un simbolo dell’ingiustizia assurda che viene perpetrata contro chi viene additato come scafista in Italia". Il 16 novembre Marjan Jamali si dichiara innocente, “ho pagato 9mila dollari per me e 5mila per mio figlio solo per cercare una vita migliore in Europa", dice. Ma resta in carcere, accusata da “tre migranti che si sono resi disponibili a collaborare con la giustizia italiana”, tre uomini che - secondo i racconti della donna - durante il viaggio avrebbero provato a violentarla.
Marjan Jamali resta per settimane all’oscuro di quello che le sta succedendo. Non sa di cosa è accusata, gli interpreti che le assegnano non parlano la lingua farsi, e lei non riesce ad avere notizie di suo figlio. “In quelle due settimane ho imparato a chiedere in Italiano ‘dov’è mio figlio?’ Lo ripetevo di continuo”, racconta alla deputata Laura Boldrini, che è andata a trovarla lunedì 12 marzo nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. E’ qui che la ventinovenne iraniana è stata trasferita lo scorso gennaio dopo aver tentato il suicidio.
“Mi hanno detto che mio figlio era stato rimandato in Iran, ho smesso di prendere le pillole calmanti che mi davano in carcere e una sera le ho prese tutte in una volta”, continua la donna. Sedici pillole calmanti, per spegnere la disperazione. L’evasione dal regime degli ayatollah, la fuga da un marito violento, il viaggio in mare, le violenze a bordo e il sogno di una vita al sicuro in Europa che si sgretola dentro un carcere italiano.
Marjan Jamali ha provato a porre fine a tutto ciò ed è stata trovata priva di sensi nella sua cella, da lì l'ospedale e poi il trasferimento in Sicilia. Il figlio fortunatamente sta bene nella famiglia a cui è stato affidato, ma aspetta di poter rivedere la madre. Oggi si terrà la seconda udienza per chiedere che la giovane iraniana venga trasferita agli arresti domiciliari.
“Ancora una volta il problema quando le persone vengono arrestate in Italia è l’assenza di interpreti adatti. Come nel caso della mia assistita, che parlino la lingua persiana” spiega l’avvocato Liberati. Ma il caso di Marjan Jamali non è un caso isolato, nelle carceri italiane ci sono migliaia di persone accusate di scafismo.
Negli ultimi otto anni, secondo il report “dal mare al carcere”, il numero complessivo di arresti è stato di 2.559 uomini e donne. Come sottolinea Richard Braude, ricercatore del circolo Arci Porco Rosso di Palermo, “questo caso evidenzia le grandi problematiche che affrontano migliaia di persone ogni anno a causa dell’accusa di scafismo”.