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"Non fate prigionieri". Un video potrebbe minare la leadership del generale Haftar, uomo forte di Tobruk

Proprio nelle ore in cui il leader cirenaico è a colloquio a Roma per discutere il dossier-sicurezza sugli impianti Eni a Mellitah, alcuni analisti americani lo accusano di "crimini di guerra"

Paola Pintusdi Paola Pintus   
'Non fate prigionieri'. Un video potrebbe minare la leadership del generale Haftar, uomo forte di...

"In ogni caos c'è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto", diceva Carl Gustav Jung. La massima si applica benissimo all'attuale situazione libica e alla complessità dei rapporti internazionali che ruotano intorno ai due governi di Tripoli e Tobruk, protagonisti in una prova di forza diplomatico militare che vede schierati, nell'ombra, gli interessi contrapposti di molti attori internazionali su diversi fronti strategici: quello della spartizione delle zone d'influenza mediterranea fra i grandi blocchi intercontinentali Usa-Urss, quello della lotta al "terrore" sotto la cui bandiera si celano le mire egemoniche dei paesi arabi, e infine quello petrolifero, con l'italiana Eni impegnata a difendere le sue posizioni in Tripolitania contro l'offensiva congiunta della francese Total nel Fezzan e della britannica Shell, in Cirenaica. Una competizione che a livello governativo si combatte senza esclusione di colpi, utilizzando persino la crisi migratoria come strumento di pressione contro il nostro paese -più esposto geograficamente- pur di indurlo a cedere la sua fetta di torta. Risalgono ad appena due settimane fa le indiscrezioni riprese dall'Ansa del sito Al Araby 21 che riferiva di "incontri" , successivi alla visita del Ministro Minniti in Libia del 5 settembre, fra "delegazioni inglesi e francesi" con "alcuni capi dei gruppi armati nella città di Sabratha", nel corso del quale un diplomatico britannico avrebbe presentato le "ultime statistiche in diminuzione sui flussi migratori", esprimendo "insoddisfazione per il modo in cui l’Italia tratta il dossier immigrazione in Libia".

E forse non è un caso se, proprio nel giorno in cui il generale Khalifa Haftar arriva a Roma per discutere insieme al Ministro della Difesa Pinotti il dossier sicurezza relativo agli impianti italiani di Mellitah e la tenuta del piano anti-trafficanti salta fuori un video potenzialmente destabilizzante per l'uomo forte di Tobruk. Il filmato, ripescato dalle nebbie di Youyube dove pare fosse stato caricato nell'ottobre del 2015, e rilanciato con grande enfasi dal sito di analisi strategica americano "Just Security", dall'inglese "Guardian" e dal "Telegraph", mostra Haftar impegnato in una riunione con gli uomini dell'Esercito Nazionale Libico da lui guidato, a cui ordina "di non fare prigiornieri".  Direttiva che viola la normativa di guerra, come lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale dell'Aia (Cpi), che  individua nel 'denial of quarter' un crimine di guerra. Lo scorso agosto, proprio la Cpi aveva spiccato un mandato di arresto contro un alto comandante alleato di Haftar, Mahmoud Al-Werfalli, a capo della Forza al-Saiqa dell'Operazione Dignità lanciata dal generale libico nel 2014, per la "sua diretta partecipazione in sette diverse esecuzioni, in cui 33 persone sono state uccise a sangue freddo a Bengasi e nelle zone circostanti" in un periodo compreso tra il 3 giugno 2016 e il 17 luglio 2017.

Il filmato, analizzato da Ryan Goodman, ex consigliere del Pentagono, e da Alex Whiting, ex procuratore alla Cpi, mostra l'uomo forte della Cirenaica mentre sprona i suoi soldati: "Tutte le armi sono ammesse. Con tutte le risorse di cui disponiamo, le useremo senza alcuna esitazione" Ed ancora: "Siate calmi, siate risoluti, siate forti, di quella forza per cui siete noti, duri negli scontri. Nessuna pietà nell'affrontare il nemico. Niente prigionieri. Noi non facciamo prigionieri. Non ci sono prigioni. Il campo di battaglia è il campo di battaglia, fine della storia". 

Gli autori dell'articolo su Just Security si soffermano su un particolare di non poco conto relativo alla storia personale di Haftar: la sua cittadinanza americana, acquisita dopo che, per intercessione degli Stati Uniti, il generale un tempo fedelissimo a Gheddafi venne liberato nel 1990 dalla prigionia in Chad in seguito a una disastrosa guerra persa dalla Libia contro il paese africano. Haftar prese allora la via degli Stati Uniti e vi rimase quasi 20 anni, mentre in patria veniva condannato a morte. Quale fu il prezzo della liberazione si può solo intuire. Quel che è certo è che prese a soggiornare nei sobborghi di Washington, non lontano dal quartier generale della Cia.  Haftar torna in Libia improvvisamente nel 2011, per prendere parte alla rivolta anti-Gheddafi. Un'operazione lampo, come quelle che vengono spesso affidate agli agenti sotto copertura per "aiutare" i cambi di regime. Ritorna poi in Libia nel 2014, perché i suoi amici, ha raccontato, continuavano a ripetergli di avere bisogno di "un salvatore". Laico e antislamista, Haftar tenta la via del colpo di stato, che gli riesce solo per metà, con l'Operazione Dignità che spacca il paese in due, con due parlamenti, due governi e due capitali. Ottiene però l'appoggio dell'egiziano Al Sisi in funzione anti-jihadista e anti Fratelli Musulmani. E instaura buone relazioni con Francia e Gran Bretagna, ansiose di guadagnare posizioni nello scacchiere libico. Per Washington poteva probabilmente bastare così: l prospettiva di una Libia divisa in più protettorati sarebbe stata molto simile, a quel punto, all'ipotesi di spartizione della Siria accarezzata dalla coalizione di Rihad. Non mancano le prese di distanza da parte di Obama ("Il governo americano non ha niente a che fare con il generale. È un “vendicatore”, e non farà che unire i suoi rivali"). Ma il generale libico, inaspettatamente, apre un canale di interlocuzione con la Russia, incassando nel gennaio 2017 una fornitura di 2 miliardi di dollari in armi russe. Cosa che avrà provocato più di un malumore negli headquarters USA, dove pure non è sconosciuta la pratica del "doppio binario".

"Il video di Haftar rafforza le preoccupazioni circa l'esposizione criminale dell'uomo americano e la sua idoneità come interlocutore in tutti i negoziati diplomatici sul futuro della Libia. Inoltre, se questi video aiutano a dimostrare che Haftar commetta personalmente crimini di guerra, i singoli che sostengono le operazioni militari di Haftar in futuro, ufficiali statunitensi inclusi, potrebbero anche essere esposti a responsabilità penali a livello internazionale e nazionale", scrivono ora gli analisti su Just Security.

"Il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale (CPI) per il subordinato di Haftar, Mahmoud Mustafa Busayf Al-Werfalli, ha ora messo in evidenza la questione del coinvolgimento personale di Haftar nella commissione dei reati. Abbiamo trovato i video che sembrano implicare direttamente Haftar in omicidi extragiudiziali e un assedio illegale di Derna, una città portuale orientale in Libia", prosegue l'articolo. "Le affermazioni di Haftar in questi video suscitano una serie di implicazioni giuridiche per lui, per l'esercito che comanda e per i suoi sostenitori internazionali". Inoltre, come cittadino americano, il generale è soggetto alle disposizioni del codice federale statunitense che criminalizzano le violazioni delle leggi della guerra. Per estensione, i funzionari statunitensi che forniscono sostegno a Haftar in futuro potrebbero anche rischiare la responsabilità penale come ausiliari e abettors ai sensi della legge nazionale statunitense se si può dimostrare che hanno agevolmente agevolato i suoi crimini o, forse, se i reati sono particolarmente gravi, fornito il supporto alla conoscenza di tali crimini. Poiché la CPI continua a affermare la giurisdizione in Libia sulla base di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottata all'unanimità, probabilmente esaminerà anche tutte le prove disponibili per valutare se le tariffe sono giustificate contro Haftar. Inoltre, l'ICC potrebbe teoricamente esercitare il potere penale nei confronti di altri attori che aiutano l'Haftar, anche se sarebbe estremamente improbabile nei confronti dei cittadini di Stati che non sono parti della CPI come gli Stati Uniti". 

 

Il fronte della diplomazia in cerca di nuovi-vecchi interlocutori

Insomma, proprio nelle ore in cui il leader cirenaico impegnato nell'offensiva nei sobborghi di Sabratha contro la "Brigata 48" giunge in Italia per rassicurare il nostro governo sulla tenuta della sicurezza dei vicini impianti di Mellitah, una nuova tegola made in USA sembra cadere su di lui e sugli sforzi italiani per mantenere il dialogo aperto e proteggere gli interessi nazionali nel doppio fronte libico. Ma molto altro si muove per "normalizzare"  generale Haftar e le sue ambizioni.

Anche la diplomazia internazionale, in Tunisia, mette in campo una strategia di ampio respiro, in vista della stabilizzazione libica.  L’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé, sta lavorando proprio in questo momento per elaborare modifiche all’accordo di Skhirat, raggiunto in Marocco nel dicembre del 2015, dal quale è nato il governo Sarraj. Gli emendamenti prevedono, tra le altre cose, la riduzione del Consiglio presidenziale da nove membri a tre e la sua separazione dal Consiglio dei ministri. Il piano dell’Onu è stato dettagliato ieri dallo stesso Salamé in una riunione a margine della 72esima Assemblea generale delle Nazioni unite a New York.

Si tratta di “una roadmap di un anno”, la cui prima fase prevede di “emendare l’accordo politico libico”. Poi una conferenza nazionale sotto egida del segretariato generale dell’Onu Antonio Guterres dovrebbe “aprire le porte a quanti si sono autoemarginati e a quanti sono stati riluttanti nell’aderire al processo politico”. La conferenza riunirà i membri della Camera dei rappresentanti (di Tobruk) e dell’Alto Consiglio di Stato (di Tripoli) e molti altri che sono poco o affatto rappresentati in questi due organismi. “Nel corso dei lavori si procederà su base consensuale all’individuazione e alla scelta dei membri di istituzioni esecutive ridefinite per il Paese”, ha detto Salamé. Dopo la conferenza, la Camera dei rappresentanti e l’Assemblea costituente dovrebbero lavorare in parallelo, a cominciare dalle normative per un referendum costituzionale e per elezioni legislative e presidenziali. Un processo politico che dovrà essere sorretto da concreti passi avanti in diverse aree. In particolare, ha spiegato l’inviato Onu, bisognerà dialogare con i gruppi armati, per favorire l’inserimento dei loro membri nel processo politico e nella vita civile. Progressi sono necessari anche per “unire l’esercito nazionale e per portare avanti e rafforzare le iniziative di riconciliazione locale”, ha detto Salamé. Le ultime fasi del processo contemplano “un referendum per l’adozione della Costituzione e poi l’elezione di un presidente e di un parlamento, nella cornice costituzionale, che segneranno la fine della transizione”, ha precisato Salamé.

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