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Effetto Trump ma non solo: ecco perché il summit sul clima di Madrid si è inceppato

Il risultato delle incertezze dei grandi paesi emergenti è stato di far impantanare uno dei primi obiettivi del vertice di Madrid: il rilancio degli impegni di riduzione delle emissioni.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Cop25, a Madrid la conferenza mondiale Onu sul clima (Ansa)
Cop25, a Madrid la conferenza mondiale Onu sul clima (Ansa)

Lo possiamo chiamare effetto Trump. Dietro quello che protagonisti e osservatori definiscono – quasi all’unanimità – il fallimento del vertice Onu di Madrid sul clima, c’è l’onda lunga della decisione del presidente americano, tre anni fa, di ritirare gli Usa dall’accordo di Parigi del 2015 contro l’effetto serra. A Madrid, infatti, i quasi 200 paesi firmatari dell’accordo di Parigi avrebbero dovuto rilanciare i propri impegni di riduzione delle emissioni per il prossimo decennio e, soprattutto, dare il tocco finale al manuale operativo, senza il quale procedure e meccanismi di azione e collaborazione, abbozzati quattro anni fa, restano solo sulla carta. Invece queste istruzioni per l’uso sono ancora in sospeso esattamente come gli impegni e, nell’ostruzionismo dietro le quinte che ha bloccato (quasi) tutto è facile scorgere le impronte digitali dei negoziatori americani. Anche se Washington si prepara ad uscire, fra un anno, dall’accordo, infatti, i suoi diplomatici partecipano ancora a pieno titolo ai lavori e il loro lavoro si vede, forse mai così chiaramente come questa volta.

"Il negazionismo di Trump"

Assolutamente trumpiana, ad esempio, soprattutto ricordando altre battaglie semantico-lessicali della Casa Bianca (come il rifiuto di condannare esplicitamente il protezionismo nei documenti del G7), è la singolare decisione del testo finale di “segnalare” e non, invece, “accogliere”, i drammatici rapporti sul clima degli scienziati dell’Ipcc, che è pur sempre un organismo della stessa Onu. Più concretamente, il negazionismo di Trump sul riscaldamento globale ha fornito copertura politica alla resistenze dei paesi più scettici: Australia (grande produttrice di carbone), Arabia saudita (petrolio), Brasile (deforestazione), Russia (petrolio e gas). Scettici, perché inquinatori: il 90 per cento delle emissioni di gas serra, di origine umana, è legato all’uso dei combustibili fossili e alla produzione di cemento; il 10 per cento restante alla deforestazione. Più sottile, ma anche più insidioso, l’effetto Trump sulle mosse di due grandi protagonisti della scena mondiale, sia sotto il profilo economico  che sotto quello delle emissioni: Cina e India. Prima di decidere i loro impegni futuri, Pechino e Nuova Delhi vogliono capire se, fra un anno, alla Casa Bianca tornerà ad insediarsi il negazionista Trump o se le elezioni 2020 saranno, invece, vinte da un democratico, pronto a tornare dentro gli accordi di Parigi.

L'incertezza dei paesi emergenti

Il risultato delle incertezze dei grandi paesi emergenti è stato di far impantanare uno dei primi obiettivi del vertice di Madrid: il rilancio degli impegni di riduzione delle emissioni. In teoria, in base agli accordi di Parigi, l’anno prossimo i paesi firmatari dovrebbero rilanciare sugli impegni di riduzione della CO2 presi nel 2015, presentando nuovi impegni, aggiuntivi rispetto a quelli assunti quattro anni fa. Ma il testo di Parigi offre una scappatoia che, Pechino in testa, molti paesi sono stati pronti a sfruttare. Tecnicamente, infatti, sono i paesi che, nel 2015, avevano presentato impegni fino al 2025 a doverli rinnovare. Quelli che avevano presentato un programma di riduzione esteso al 2030 possono aspettare il 2025. La differenza è abissale. I paesi che, al nuovo vertice di Glasgow, l’anno prossimo, dovranno rilanciare sugli impegni presi fino al 2025 sono un’ottantina. Si comincia con il Suriname e non si va molto più lontano. Complessivamente, dunque, questi paesi rappresentano attualmente solo il 10 per cento delle emissioni globali. Tutti gli altri, quelli del 2030, per mostrare pubblicamente il loro impegno contro il cambiamento climatico, potranno aspettare altri cinque anni, fino al 2025. Secondo gli esperti, fuori tempo massimo. Le emissioni globali, infatti, hanno ripreso a crescere dal 2017, mentre dovrebbero scendere di quasi il 3 per cento l’anno, da qui al 2030, per mantenere il mondo in corsa sull’obiettivo di tenere la temperatura del pianeta sotto i 2 gradi a fine secolo. L’Unione europea, uno dei giganti del pianeta, ha appena rilanciato sui suoi impegni, puntando ad una riduzione delle emissioni del 50 per cento, anziché del 40 per cento, nel 2030, ma questi impegni devono ancora trovare definizione in progetti concreti.

Scappattoie

Scappatoie, scorciatoie, se non proprio giochi delle tre carte sono stati il copione anche sull’altro grande tema del vertice: la creazione di un mercato delle emissioni. In Europa, la compravendita di diritti ad emettere CO2 esiste da tempo,  con buoni risultati. Se, rispetto ad un quantitativo prefissato, una acciaieria riesce ad emettere meno CO2, grazie a procedimenti più efficienti e meno inquinanti, può vendere questi diritti ad un’altra azienda che, invece, ha sforato i suoi obiettivi. L’Idea, lanciata quattro anni fa a Parigi, era di estendere il mercato a livello mondiali con compravendite fra paesi. Il nodo su cui si è inceppato il tentativo di definire il funzionamento del mercato è quello del doppio conteggio: chi si intesta il credito per la riduzione delle emissioni, in caso di scambio dei diritti? Chi compra, chi vende o tutti e due? E’ stato soprattutto il Brasile di Bolsonaro a spingere per la risposta numero tre ma significava adattare alle emissioni il gioco delle tre carte. Facciamo il caso di due paesi, ognuno dei quali ha preso impegni a ridurre le emissioni, secondo un proprio percorso e che, intanto, ha a disposizione un pacchetto di diritti ad emettere, pari a 100 tonnellate di CO2 l’anno. Il paese A, tuttavia, grazie a programmi incisivi, riesce a contenere le sue emissioni a 80 tonnellate. A questo punto, vende questo surplus di 20 tonnellate che non ha utilizzato al paese B che, invece, non ce l’ha fatta e ha sfondato il suo tetto, arrivando ad emettere 120 tonnellate di CO2. Ma, a questo punto, chi è che può rivendicare di avere ridotto le sue emissioni, secondo il programma nazionale presentato? Il paese A che ha venduto i diritti o quello B che li ha comprati? Se rivendicassero tutt’e due quelle 20 tonnellate in meno, si arriverebbe al paradosso che le emissioni mondiali sono state ridotte (sulla carta) di 40 tonnellate, invece delle 20 effettive.

Brasile e Australia

Il Brasile e, ancora più vigorosamente, l’Australia hanno bloccato il decollo di un mercato globale delle emissioni anche per un altro intoppo: i vecchi crediti. Già a Kyoto, quasi trent’anni fa, in occasione del primo accordo globale sul clima, fu creato un meccanismo di crediti, legato ad investimenti ambientali. Molti di questi investimenti (le dighe, ad esempio) hanno credenziali ecologiche, secondo  parecchiambientalisti, assai dubbie, ma il punto chiave è che paesi come Australia e Brasile ne hanno accumulato consistenti pacchetti. Oggi, non esistendo un vero e proprio mercato, quei vecchi diritti valgono pochi spiccioli alla tonnellata. Ma se un vero mercato decollasse e quei “crediti Kyoto” diventassero spendibili, Australia e Brasile si trovebbero dotati di un consistente patrimonio di diritti ad emettere.

Quello che ambientalisti e sostenitori del “carbon market” temono è che, se passasse questa tesi, in linea di principio giustificata, Australia e Brasile – due dei paesi più inquinanti – si troverebbero largamente esentati dagli obblighi di riduzione, con effetti negativi sulle emissioni globali. Si tratta, del resto, di emissioni già avvenute, mentre il mondo ha bisogno di riduzioni presenti e future. I tecnici fanno anche notare che il risultato sarebbe distruggere il carbon market:  i vecchi crediti, messi all’asta, inflazionerebbero il mercato, facendo precipitare il prezzo dei diritti e azzerando gli incentivi economici a tagliare le proprie emissioni, per guadagnare diritti da vendere.

Per quanto spinosi e complessi, non sembrano, tuttavia, problemi insormontabili. Se ne riparlerà fra un anno esatto, nel prossimo vertice Onu, a Glasgow, a ridosso di quelle elezioni americane che avranno davvero, a questo punto, un riflesso planetario.

 

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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