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"Pugni, calci e schiaffi alla delegazione italiana arrestata in Turchia"

I giovani si trovavano a Istanbul perché erano stati invitati ad un raduno organizzato dal Partito Democratico dei Popoli (HDP)

Lidia Ginestra Giuffrida di Lidia Ginestra Giuffrida   
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Foto Ansa

“Ci hanno presi a pugni e a calci durante le ispezioni corporali dentro i camerini”, raccontano Giovanni Botta e Federico Pastoris, di Defend Kurdistan Torino, rientrati in Italia insieme ad altre tre studentesse e attiviste lo scorso 15 ottobre, dopo tre giorni di arresto arbitrario in Turchia. “Mi hanno dato schiaffi nei bus mentre ci portavano nei centri di respingimento, se mi giravo, o cercavo di comunicare con le altre mi picchiavano, inoltre ci tiravano i capelli mentre scendevamo dal bus”, dice Ariel Castagneri, anche lei della delegazione di Defend Kurdistan Torino. I giovani si trovavano in Turchia perché erano stati invitati ad un raduno organizzato dal Partito Democratico dei Popoli (HDP).

La denuncia degli attivisti italiani

Gli attivisti italiani raccontano cosa è successo in quei giorni in Turchia: “Siamo partiti il 7 ottobre, siamo arrivati ad Istanbul, abbiamo passato qualche giorno lì visitando i centri e le associazioni legate al partito. Ci siamo spostati il 10 ottobre ad Amed, nel Kurdistan Turco, abbiamo conosciuto la società civile e fatto esperienza della forza di un popolo che lotta per la democrazia in un luogo che tenta sempre più di reprimerla. Il 12 ottobre ci siamo spostati a Sanliurfa, sempre nel Kurdistan Turco, per visitare la città e partecipare alla Conferenza Stampa organizzata dal partito. È stato in quel momento che ci hanno arrestati, ci hanno portati dapprima in ospedale, dove avrebbero dovuto visitarci ma, nonostante ciò, alcuni di noi non sono stati visti dai medici.

L'arresto

Dopo ci hanno portato in una piccola stazione di polizia, c’erano un avvocato e un traduttore, ci hanno preso i telefoni e hanno iniziato le perquisizioni. Ci hanno accusati e interrogati, e dopo ci hanno portati in un centro di respingimento. La questione dei telefonini era legata soprattutto al fatto che ci accusavano di aver fatto riprese durante l’azione di polizia, noi non avevamo effettuato nessuna ripresa, ma la storia dei video è stata comunque usata come pretesto primario dell’accusa e dell’arresto. Siamo riusciti a mandare un messaggio subito prima che ci sequestrassero i telefoni per comunicare ai nostri familiari ciò che stava avvenendo. A otto/nove ore dall’arresto siamo stati ritenuti non responsabili di aver fatto questi presunti video. Allora è scattata la seconda accusa, quella di voler partecipare alla conferenza stampa. Accusa che non è stata mai formalizzata”.

Le intimidazioni

Numerose anche le intimidazioni e i tentativi di estorcere dichiarazioni che avrebbero potuto mettere in difficoltà gli attivisti. I ragazzi raccontano che durante l’arresto gli era stato dato uno spazio di sostegno psicologico ma in realtà non era altro che un interrogatorio che iniziava con “come vi sentite” e continuava con “domande specifiche sulla nostra politica e sul perché eravamo andati in Turchia”. Ariel Castagneri dice che sui bus alcune di loro sono state fotografate da uomini in borghese. 

Il rimpatrio

Inoltre, il giorno del rimpatrio in Italia, non gli è stata data altra scelta se non quella di firmare il foglio di rimpatrio volontario: “o firmate o rimanete in carcere”, è stato detto al gruppo di attivisti. “Siamo sempre stati seguiti e controllati durante le nostre prime tappe del viaggio, è tangibile la sorveglianza che viene fatta dallo Stato turco. – Continuano i cinque ragazzi - Durante la conferenza stampa, che era un evento pubblico, la polizia ha avuto la possibilità di intervenire. Il fermo di una delegazione internazionale totalmente legale, che stava lì semplicemente per mettere in luce le organizzazioni democratiche che agiscono nel paese, è parte della repressione di uno stato che non è poi così liberale come si professa”.

 

 

Lidia Ginestra Giuffrida di Lidia Ginestra Giuffrida   
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