[La polemica] "La Francia è causa dell'invasione di migranti in Italia": l'attacco del M5S a Parigi
Le ex colonie che usano il franco africano come moneta sarebbero stremate da questo rapporto sbilanciato. Perciò la gente viene da noi, secondo Di Maio e Di Battista. Ma è un attacco talmente al di là della realtà da apparire come una precisa strategia. Ecco perché
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Alla data del 22 gennaio, i migranti sbarcati in Italia nel corso del 2019 sono, in tutto, 155. Chi sono? Bangladesh, soprattutto. Poi iracheni, tunisini, iraniani. Dall’Africa subsahariana, dove si parla francese, come Costa d’Avorio, Congo-Brazzaville, Camerun, Senegal, Mali? Zero, informano i dati, aggiornati in tempo reale, del ministero dell’Interno. Eppure, l’allarme improvviso lanciato in tv dai due massimi esponenti del Movimento 5Stelle – Di Maio e Di Battista – individua nella politica neocoloniale della Francia di Macron la leva che alimenta le ondate di migranti che abbandonano l’Africa francofona per rovesciarsi in Italia. E, allora, dove sono? Forse, l’inverno non è la stagione migliore per attraversare il Sahara. Ma neanche nei dati del 2018 è possibile trovare traccia di una “emergenza Macron”. I migranti sbarcati in Italia, l’anno scorso, sono stati, in tutto, poco più di 23 mila (l’equivalente degli abitanti di un piccolo Comune, come Cassano Magnago, il paese natale di Bossi, ma questo è un problema della propaganda di Salvini). Di questi, solo poco più di 2 mila venivano dalle ex colonie francesi: circa mille dalla Costa d’Avorio, il resto da Mali e Guinea. Dagli altri 11 paesi indicati da Di Maio e Di Battista (Congo, Camerun, Senegal, Niger, Guinea-Bissau, Gabon, Burkina Faso, Benin, Ciad, Togo e Repubblica Centroafricana) solo qualche caso isolato. Nessuno a chiedere asilo. Chi sbarca in Italia non arriva da lì. Arrivano da Tunisia, Eritrea, Sudan, Pakistan, Iraq, paesi che, con Parigi, niente hanno a che vedere.
Un attacco studiato a tavolino
All’ipotesi che le accuse lanciate da Di Maio e Di Battista siano l’effetto di un abbaglio collettivo della dirigenza grillina, tuttavia, non crede nessuno. E neanche che l’offensiva 5Stelle nasca dalla riluttanza, ormai sistematica, a verificare, anzitutto, dati e precedenti. Più facile pensare ad una forzatura polemica, studiata a tavolino, per scavalcare il successo della propaganda leghista. Dove Salvini si limita a dire “li fermeremo sul bagnasciuga”, Di Maio e Di Battista pensano di poter indicare le cause e i responsabili dell’ondata di migranti. Ma, se esiste un problema vero nella politica dell’Europa verso l’Africa, non è quello indicato dai leader grillini e anche i bersagli della polemica sono frutto di una lettura semplicistica e approssimativa.
Il franco africano
La pietra dello scandalo, secondo Di Maio e Di Battista, sarebbe il franco africano, il franco CFA, la moneta specifica delle ex colonie francesi in Africa. Creata nel 1945, la valuta utilizzata in questi paesi (divisi, peraltro, in due comunità distinte) è, in realtà, agganciata oggi, attraverso un cambio fisso, all’euro e alla politica monetaria decisa, non a Parigi, ma a Francoforte dalla Bce, come per tutti i paesi dell’euro. E’ vero, però, che le transazioni relative alla valuta africana vengono gestite dalla Banca di Francia. Non tanto la stampa delle banconote (irrilevante: per ironia, buona parte delle banconote dell’euro vengono stampate in Inghilterra), quanto i suoi movimenti sul mercato internazionale. In parole semplici: la Banca di Francia garantisce che il franco africano è e sarà sempre pienamente convertibile in qualsiasi altra valuta e che chiunque se lo trovi in mano potrà sempre spenderlo serenamente, perché, alla fine, la Banca di Francia onorerà il debito scritto sulla banconota, ad un cambio che è quello dell’euro. Se anche le riserve valutarie di un singolo paese fossero azzerate, Parigi ci metterà del suo. E’ la differenza fra una moneta solida e, per stare alle barzellette, la “pizza di fango del Camerun” (che, peraltro, usa proprio il franco africano). Non è poco per paesi sballottati nel mare del mercato mondiale. E, a garanzia di questa sua garanzia, la Banca di Francia tiene nelle sue casseforti l’equivalente del 50 per cento delle riserve in valuta estera di questi paesi, sulle quali, comunque, paga un interesse. Non sono, del resto, cifre che fanno girare la testa al Tesoro francese: 10 miliardi di euro, lo 0,5 per cento del debito pubblico, un ammontare che non sposta nulla negli equilibri di bilancio.
La memoria dell'impero
E’ questo il cappio con cui la Francia strangola i 14 paesi? Pare un salto logico. La Francia esercita certamente una profonda influenza geopolitica nelle sue ex colonie. La memoria dell’impero è vivida negli interventi militari che Parigi compie nell’area e, ancor più, nei 100 milioni di africani che parlano francese: metà di tutti quelli che, nel mondo, parlano la lingua di Balzac vivono in Africa. Gli interessi sono corposi: l’uranio del Niger è cruciale per le centrali atomiche che, tuttora, assicurano l’elettricità alla Francia. Ma il ruolo dell’ex potenza imperiale si stempera ogni anno che passa. La Francia è il primo partner commerciale del Niger (quello dell’uranio). Ma, nel caso della Repubblica Democratica del Congo, patria del cobalto, elemento essenziale per le batterie delle auto elettriche, Parigi non è neanche nella lista dei primi cinque paesi destinatari delle esportazioni. Per il paese più grande dell’area, la Costa d’Avorio, la Francia è solo il terzo paese di destinazione dell’export e il secondo (dopo la Cina) per l’import.
L'euro in versione africana
Il problema del franco africano e del suo peso sullo sviluppo economico (e, dunque, sulle migrazioni-fantasma avvistate dai 5Stelle) sta altrove. Non a Parigi, ma a Francoforte. E Macron c’entra assai poco. Legandosi all’euro con un cambio fisso, infatti, i paesi del franco africano finiscono per adeguarsi all’indirizzo di politica monetaria deciso dalla Bce. In concreto, sono passati in questi anni attraverso una fase di austerità, che poco c’entra con le esigenze di un paese in via di sviluppo.
In realtà, siamo di fronte ad un equilibrio delicato, di cui gli economisti discutono da tempo, probabilmente mai immaginando che sarebbero stati all’origine delle scomposte offensive propagandistiche grilline. Per ogni singolo paese, mantenere l’aggancio all’euro significa restare al riparo dalle tempeste valutarie mondiali, che spesso travolgono proprio i paesi più deboli, contare su prezzi stabili a protezione di consumi ed investimenti, dare sicurezze e garanzie ai propri partner commerciali internazionali. Liberarsene consentirebbe una politica più avventurosa, sul piano degli investimenti pubblici e, con la svalutazione della propria moneta, non più legata all’euro, un vantaggio per le esportazioni. Da pagare, però, con importazioni (altrettanto cruciali per un paese in via di sviluppo, a cominciare dalla benzina) sempre più care e il rischio di una inflazione galoppante, che sommergerebbe la fragile economia di mercato di quei paesi.
La strada dello sviluppo
In fondo, la “pizza di fango del Camerun” delle barzellette, per un po’, è esistita davvero. Protagonista il dollaro dello Zimbabwe arrivato in fondo ad una spirale inflattiva che neanche la Germania di Weimar. Non a caso, la spirale è stata interrotta dall’aggancio della moneta nazionale al dollaro Usa. Insomma, non esistono ricette facili o colpevoli designati. Il punto chiave di qualsiasi politica dell’immigrazione non sono le accuse ad un neoimperialismo francese, ma un impegno perché l’Europa investa di più in Africa. Da questo punto di vista, fuori dalla propaganda, il franco africano, garantendo meglio gli investimenti esteri, più che un ostacolo può rivelarsi una opportunità.