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Catalogna, l'errore tragico di Rajoy e le contraddizioni dell'Europa

Dietro il caos del referendum per l'indipendenza c'è l'incapacità di trovare una mediazione possibile sull'autonomia ma anche la natura incompiuta della casa comune europea

Paola Pintusdi Paola Pintus   
Catalogna, l'errore tragico di Rajoy e le contraddizioni dell'Europa

Il portavoce del governo catalano Jordi Turull ha reso noti i risultati del referendum sull'indipendenza: il 'si' ha ottenuto il 90% dei voti. Il 'no' il 7,8%. Un esito probabilmente scontato, dato che si sapeva che al referendum avrebbero aderito soprattutto i più interessati alla proposta separatista. Meno scontata era la soglia di partecipazione, che era il vero quid di legittimazione del referendum catalano e che è stata comunque altissima nonostante il braccio di ferro messo in scena il primo ottobre dal governo di Madrid: a votare sono stati 2,2 milioni di elettori sui 5,3 chiamati alle urne, il 42,2% degli aventi diritto. C’è chi, per sminuire il risultato, dice che siano stati commessi brogli palesi, che in diversi casi le stesse persone siano state viste votare più volte in diversi seggi. Ma possiamo forse dire che il clima di intimidazione, il blocco delle sedi di voto, i sequestri delle schede, l’uso indiscriminato della forza contro civili inermi- giovani, donne, anziani- siano stati fattori meno distorsivi sull’andamento del referendum? All’appello mancano 770 mila elettori che erano iscritti nei 400 seggi chiusi dalla polizia. Il portavoce del Governo catalano ha affermato che “in condizioni diverse” la partecipazione al voto avrebbe potuto raggiungere il 55% degli aventi diritto. Chi può dire, con certezza, che non sia così? La verità è che nel caos del referendum catalano è ormai impossibile dire come sarebbero andate davvero le cose se il governo spagnolo avesse consentito il regolare svolgimento della consultazione. L’errore, tragico, di Rajoy è stato quello di radicalizzare lo scontro senza riuscire a proporre una soluzione politica, alternativa al voto. Davanti a uno scenario più o meno simile, l’Italia seppe trovare, nel 2001 una risposta efficace, in grado di neutralizzare la montante voglia di secessione portata avanti dalla Lega di Bossi: la riforma del Titolo V della Costituzione, per la prima volta, riconosceva il ruolo delle autonomie locali e delle regioni, dando loro potestà legislativa piena in tutte le materie non rientranti nella competenza esclusiva dello stato ne in quella concorrente, “nel rispetto dei vincoli costituzionali, di quelli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Rimaneva impregiudicata la potestà esclusiva dello Stato su materie fondamentali come la politica estera, la difesa, il diritto d’asilo, i rapporti internazionali, la sicurezza, la valuta e il sistema tributario. Un percorso perfettibile, sul piano giuridico-costituzionale, e che nel tempo ha messo in luce i suoi difetti,ma che in quel momento si rivelò politicamente lungimirante . Oggi la Spagna, un po’ come l’Italia nel 2001, ha un disperato bisogno di trovare una mediazione sull’autonomia possibile. E l’Europa non può sottrarsi a questo dibattito semplicemente considerandolo “un affare interno di Madrid”.
Il Governo spagnolo considera illegale il referendum catalano. Tecnicamente ha ragione. Ma una partecipazione così massiccia, nonostante tutto, segnala una situazione di fatto che non si può ignorare. Dunque l’Europa ha davanti a se due strade: essere il mero gabinetto di segreteria che ratifica i rapporti di forza fra gli Stati (e fra questi e la grande finanza globale) oppure provare ad essere un soggetto politico sovrastatale capace di conciliare e tenere al suo interno le diverse istanze dei popoli e le forme di governo che di volta in volta nel divenire storico questi decidono di darsi. Rajoy ha agito in punta di diritto, dimenticando però che ogni Costituzione non è nient’altro che un patto di convivenza, valido fintanto che tutti confermano spontaneamente di volervi aderire. E sulla convivenza possibile, sulla comunità di destino che tutti chiamiamo “Europa”, la politica è chiamata a interrogarsi al più presto, senza mettere la testa sotto la sabbia ed evitando ingigantire contraddizioni che se governate con buon senso istituzionale possono addirittura essere trasformate in occasioni di crescita democratica.

Paola Pintusdi Paola Pintus   

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