Storie di pipistrelli, a caccia di virus per le grotte della Cina per scoprire le origini dell’epidemia
Data la relativa stabilità genetica del virus e il fatto che in un numero rilevanti di casi i contagiati siano asintomatici o abbiano sintomi molto lievi, i ricercatori sospettano che il SARS-CoV 2 sia stato in giro per settimane, se non mesi, prima che i casi più gravi destassero l’allarme
Diventa sempre più difficile districarsi tra accuse e contraccuse. Capire se si è trattato di ritardi, sottovalutazioni, minimizzazioni, riflessi condizionati da dittatura in salsa cinese, oppure di qualcosa di più e di peggio come annunciato da Trump e dal suo Segretario di Stato Pompeo.
A rinfocolare le polemiche ora c’è anche il caso dei giochi militari svoltisi a Wuhan dal 18 al 27 ottobre scorso in cui ognuno accusa l’altro di essere l’untore del virus. Il tutto, naturalmente, senza che nessuno abbia portato risultati di un qualche test sierologico per dimostrare l’avvenuto contagio, né i cinesi, né gli americani, né i francesi, né gli svedesi, né noi italiani. Ma tant’è. À la guerre comme à la guerre.
Storie che si perdono
D’altronde quando il confronto sale di tono, quando si arriva allo scontro, è quasi inevitabile che alla fine si appiccichino delle etichette e si ragioni su quello, bianco contro nero, buoni contro cattivi. E così gli elementi e le storie che invece rendono la realtà più sfaccettata e forse più complessa si perdono.
Una di queste storie riguarda la virologa Shi Zhengli e il team che con lei lavora presso l’Istituto di Virologia di Wuhan, il laboratorio accusato dall’Amministrazione americana di essere la fonte dell’epidemia di Covid-19, anche se per cause accidentali. Il tutto è stata raccontato dalla prestigiosa rivista scientifica Scientific American in un articolo dal supereroico titolo “How China’s ‘Bat Woman’ Hunted Down Viruses from SARS to the New Coronavirus” apparso on line l’11 marzo scorso e poi aggiornato al 27 aprile.
La telefonata
30 dicembre del 2019, ore 19. All’istituto di Virologia di Wuhan arrivano alcuni campioni da analizzare. Il Centro per il Controllo e le Prevenzione delle malattie di Wuhan ha individuato un nuovo coronavirus in due pazienti ospedalieri affetti da polmonite atipica e ha richiesto al laboratorio di indagare. Il patogeno è della stessa famiglia di quello che ha causato la SARS per cui la cosa potrebbe essere grave. Poco dopo la dottoressa Shi riceve una telefonata dal direttore dell’Istituto: “Lascia stare qualsiasi cosa tu stia facendo e mettiti subito al lavoro su questo”.
“Potrebbe essere venuto dal nostro laboratorio?”
Shi, soprannominata dai suoi colleghi la “Bat Woman” per le sue numerose spedizioni nelle caverne per studiare i virus dei pipistrelli e il loro pericolo verso l’uomo, lascia la conferenza che stava seguendo a Shanghai e salta sul primo treno per Wuhan. Ha qualche dubbio perché i suoi studi hanno individuato come area ad alto rischio per un salto di specie dall’animale all’uomo dei coronavirus quella delle province meridionali e tropicali di Guangodong, Guanxi e Yunnan, non certo quella di Wuhan nella Cina centrale. Ma il dubbio vero, la domanda che le esplode nel cervello, è: “potrebbe essere venuto dal nostro laboratorio?”.
In principio fu la SARS
Negli studi sull’origine della SARS si era scoperto che il primo passaggio dall’uomo era avvenuto nel Guangodong dove dei commercianti di animali selvatici avevano contratto il virus dagli zibetti, dei mammiferi asiatici più o meno lunghi mezzo metro e circa onnivori che vivono sugli alberi. Ma non si sapeva da quale animale fosse arrivato agli zibetti, qual fosse la specie “riserva” del virus, ovvero quella con cui il virus conviveva pacificamente.
Qualcuno aveva però dei sospetti. La dottoressa Linfa Wang, che ora dirige il programma sulle malattie infettive, alla Duke-Nus Medical School di Singapore, aveva individuato come possibili colpevoli i pipistrelli della frutta e così era partita la caccia per trovare conferma.
Caccia al colpevole
Nel 2004 Wang e la sua squadra presero ad avventurarsi per caverne per raccogliere campioni organici dei pipistrelli, sangue, saliva, feci. Tra i componenti del team c’era anche una giovane dottoressa Shi. Dopo otto mesi, tuttavia, Wang, Shi e il resto della squadra non avevano trovato alcuna traccia di coronavirus. Stavano per gettare la spugna quando dei ricercatori di un vicino laboratorio diedero loro un kit diagnostico per trovare gli anticorpi prodotti da persone contagiate dalla SARS. Non c’era garanzia che il test funzionasse anche sugli anticorpi dei pipistrelli, ma Shi decise di provarci lo stesso, in fondo non c’era nulla da perdere.
Bingo!
I test diedero finalmente la conferma che cercavano: i campioni prelevati da tre specie diverse di pipistrelli contenevano gli anticorpi al virus della SARS. Iniziò allora una caccia nelle caverne di tutta la Cina e alla fine l’attenzione della squadra di Shi si focalizzò su di una caverna dello Yunnan, la Grotta di Shitou, che si rivelò essere una specie di incubatrice e catalogo di ogni sorta di coronavirus. La maggior parte dei virus erano innocui, ma ve n’erano anche decine dello stesso gruppo della SARS tra cui uno che aveva una sequenza genetica identica al 97% con quella del virus trovato negli zibetti del Guangdong. La caccia era finita, il colpevole trovato.
Miscuglio di virus
“Nei posti come la Grotta di Shitou si verifica un miscuglio continuo di virus diversi che crea grandi opportunità perché emerga un nuovo e pericoloso patogeno” ricorda Ralph Beric, virologo dell’Università del Nord Carolina e, come sottolinea la stessa Shi, “non c’è bisogno di essere un trafficante di animali per essere infettato”.
Nell’ottobre del 2015 il team di Shi raccolse campioni di sangue di 200 residenti dei villaggi sparsi nei dintorni della Grotta di Shitou. Sei persone, il 3%, avevano anticorpi contro coronavirus come quello della SARS trasmesso dai pipistrelli, anche se nessuno di loro aveva maneggiato animali selvatici o riportato sintomi di polmoniti o simili a quelli della SARS. Solo uno aveva viaggiato fuori dalla provincia dello Yunnan, ma tutti avevano visto pipistrelli volare nei loro rispettivi villaggi.
Le ricerche sono continuate e oltre un anno fa il gruppo di ricerca di Shi ha pubblicato due estesi studi sui coronavirus su “Viruses” e “Nature Reviews Microbiology” in cui, basandosi sui risultati da loro ottenuti, molti dei quali pubblicati su prestigiose riviste accademiche insieme a colleghi americani, nonché su quelli riscontrati da altri, metteva in guardia sul rischio di possibili epidemie generate da coronavirus provenienti dai pipistrelli.
Un rischio divenuto realtà
Ora il rischio era divenuto realtà. Sul treno di ritorno da Shanghai in quel fatidico 30 dicembre 2019, Shi e i suoi colleghi discutevano su come iniziare immediatamente i test sui campioni ricevuti dal loro Istituto. Nelle settimane successive il team si dedicò incessantemente a individuare il virus per determinarne il genoma. Nel contempo si dedicò anche a riesaminare tutti i registri del laboratorio per verificare che i materiali e i campioni utilizzati fossero stati trattati secondo le procedure, soprattutto nel processo di gestione dei rifiuti. Il pensiero che il virus venisse dal loro laboratorio non lasciava dormire la virologa.
Il sospiro di sollievo: le sequenze genetiche non sono le stesse
Quando finalmente arrivarono i risultati dei test sul virus che aveva contagiato i pazienti Shi poté finalmente tirare un sospiro di sollievo: nessuna delle sequenze genetiche era sovrapponibile a quelle dei virus i cui campioni erano stati prelevati dalle grotte dei pipistrelli.
Le ricerche sono continuate e si è scoperto che il genoma de virus, sebbene non identico a quello dei campioni raccolti, era uguale per il 96% a quello di di un coronavirus che il team di Shi aveva identificato nei pipistrelli a ferro di cavallo nello Yunnan. I risultati, pubblicati il 3 febbraio su Nature, sembravano quindi indicare che il virus provenisse da là.
Da allora i ricercatori di ogni parte del globo hanno pubblicato oltre 4.500 sequenze del genoma del virus dimostrando che i campioni di tutto il mondo sembrano avere un singolo antenato comune. I dati inoltre sembrano indicare che il passaggio dall’animale all’uomo sia avvenuto in un singolo caso e cha da lì vi sia poi stata trasmissione da uomo a uomo.
Un virus in giro da mesi
Data la relativa stabilità genetica del virus e il fatto che in un numero rilevanti di casi i contagiati siano asintomatici o abbiano sintomi molto lievi, i ricercatori sospettano che il SARS-CoV 2 sia stato in giro per settimane, se non mesi, prima che i casi più gravi destassero l’allarme. “Potrebbero esserci stati dei piccoli focolai, ma che poi si potrebbero essere esauriti oppure essere stati caratterizzati da sintomi lievi” Sottolinea Ralph Beric, il virologo della Nord Carolina sentito da Scientific American.
E così…
E così forse tutto è partito molto prima dei casi riscontrati a Wuhan e c’è la possibilità che il contagio sia iniziato altrove. Forse, chissà. Si ragiona su ipotesi, indizi, ma mancano le prove conclusive. D’altronde, come si diceva all’inizio, la realtà tende a essere più complessa e sfaccettata del pur comprensibile desiderio umano di soluzioni semplici e dirette. E quello della ricerca è un processo lungo basato su tentativi ed errori, ipotesi e verifiche. È il metodo scientifico. Che è diverso dal metodo della politica internazionale dove invece contano le “enormi prove”. Sempre che le si abbia veramente.