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[L’analisi] Dietro la spy story c’è l’America sconfitta che vuole colpire la Russia. Ecco come gli Usa cercano il casus belli

Secondo il capo della diplomazia russa, i ribelli siriani starebbero progettando un’azione provocatoria con l’uso di armi chimiche per fornire alla coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, un pretesto per ricorrere alla forza contro il governo siriano guidato da Bashar al-Assad. I russi hanno anche fatto sapere di essere pronti, se coinvolti in un’aggressione militare in Siria, ad intercettare i missili di crociera americani e colpire le basi da cui questi dovessero partire

[L’analisi] Dietro la spy story c’è l’America sconfitta che vuole colpire la Russia. Ecco come gli Usa cercano il casus belli

C’è un sottile filo rosso fra il caso della spia russa avvelenata a Salisbury, in seguito a cui Londra ha deciso l’espulsione di 23 diplomatici ritenuti “agenti non dichiarati da Mosca”, la guerra strisciante in Siria e la partita diplomatica delle grandi potenze fra Astana e Ginevra. La nuova “guerra fredda” che ha visto i principali paesi dell’Europa occidentale- Francia e Germania- repentinamente allineati sulla linea dura decisa da Londra, pronti a seguire le iniziative del governo britannico appoggiato dagli Stati Uniti e le stesse dichiarazioni del Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, secondo cui la Russia rappresenterebbe “una minaccia alla sicurezza internazionale e alla pace” , fanno intuire qualcosa che va oltre lo scenario di una misteriosa –ma pur sempre circoscritta- spy story.

Isolare la Russia per rovesciare il tavolo del Medio Oriente

Per scoprire a chi, e perché, può far comodo il black-out totale delle relazioni fra Mosca e l’Europa Occidentale occorre volgere lo sguardo ad Oriente, per la precisione ad Astana, dove il 16 marzo si sono incontrati, ancora una volta, i vincitori de facto della guerra in Siria: il russo Sergei Lavrov, l’iraniano Mohammad Javad Zarif e il turco Mevlut Cavusoglu, riuniti forse non a caso nelle ore immediatamente precedenti alla caduta di Afrin, roccaforte dell’ enclave curda nel nord-ovest della Siria che per quasi due mesi ha resistito all’assedio dei turchi portato avanti con l’operazione “Ramo d’Ulivo”. Un’iniziativa considerata strategica da Erdogan per eliminare la presenza delle milizie dell’Ypg dal cantone al confine con la Turchia e per scongiurare la nascita di un’unica entità semi-indipendente nel Rojava curdo, su cui probabilmente il presidente turco aveva ricevuto, proprio al margine dell’ultima conferenza per la pace di Sochi a gennaio un tacito assenso da parte di Mosca. In cambio Ankara, da sempre ostile al governo di Damasco e fiancheggiatrice dei gruppi armati ribelli, ha concesso il via libera a Damasco per la “bonifica” del Ghouta Orientale, ultima sacca di resistenza jihadista alle porte della capitale siriana. Un regolamento di conti sul campo propedeutico, secondo i playmaker di Sochi, alla successiva fase di “transizione” del contesto siriano in un quadro di riaffermata integrità territoriale del paese, sotto la guida del governo di Bashar al Assad.

Ma è su quest’ultimo punto, soprattutto, che gli Stati Uniti, tagliati fuori dal tavolo dei vincitori, stanno tentando di rovesciare la partita. In sette anni di guerra Washington ed suoi alleati nel Golfo Persico hanno fatto di tutto per arrivare alla destituzione di Assad, ed ora non sembrano ancora pronti ad accettare il mantenimento dello status quo, nonostante persino la comunità internazionale, con le parole dell’osservatore delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura, sembri ormai orientata verso un prudente assenso alla “transizione” guidata dal presidente siriano. “Assad è oggi l’unica figura politica legittima in Siria: dispone di un largo consenso tra la popolazione ed è oggi più un fattore di stabilizzazione che un problema”, aveva osservato l’inviato dell’Onu alla conferenza di Monaco del 18 febbraio scorso.

Gli Usa alla ricerca di un casus belli e il rischio di escalation

Durante le negoziazioni sul Goutha orientale al palazzo di Vetro, a fine febbraio, la rappresentante americana presso l’Onu, Nikki Haley, aveva denunciato l’atteggiamento dilatorio di Mosca e Damasco sull’applicazione di una tregua . Ora la Haley rompe gli indugi e dice che che Washington è “pronta ad agire, se necessario”. Come nella migliore tradizione dell’interventismo umanitario, ecco il casus belli con il quale l’amministrazione Usa si appresterebbe a tentare il rovesciamento delle sorti del governo siriano e l’esito già scritto del conflitto.
Immediata la reazione di Lavrov, che ha definito “inaccettabile” un’eventuale intervento militare Usa in Siria. Secondo il capo della diplomazia russa, i ribelli siriani starebbero progettando un’azione provocatoria con l’uso di armi chimiche per fornire alla coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, un pretesto per ricorrere alla forza contro il governo siriano guidato da Bashar al-Assad. I russi hanno anche fatto sapere di essere pronti, se coinvolti in un’aggressione militare in Siria, ad intercettare i missili di crociera americani e colpire le basi da cui questi dovessero partire. In questo scenario incandescente, in cui pochi hanno da guadagnare e tutti gli altri hanno molto da perdere, compresi i civili che si vorrebbe difendere, il rischio di un’escalation globale è più concreto che mai. Dipenderà molto dall’opinione internazionale, e dall’appoggio delle potenze occidentali, la decisione di Washington di agire o meno contro Damasco e dunque contro il suo alleato russo, dominus incontrastato della regione. Ecco perché anche in Europa, grazie al provvidenziale caso Skripal, si alza una nuova cortina di ferro e si tagliano le relazioni diplomatiche con Mosca. Mala tempora currunt.

Paola Pintusdi Paola Pintus, giornalista esperta di esteri   

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