Trump vince le primarie democratiche nel New Hampshire. Per i democratici si fa durissima in attesa del SuperMartedì
Ad ascoltarlo nel palazzetto dello sport di Manchester, una ex città manifatturiera, erano in 11-12mila fan entusiasti
Martedì 11 febbraio nel glorioso e antico stato del New Hampshire si sono tenute le primarie del partito democratico americano. A contendersi i 24 delegati sui 3.979 che vengono eletti erano in sette. L’anziano socialista, ormai veterano delle primarie, Bernie Sanders; la giovane rivelazione centrista, Pete Buttigieg, l’energica senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar; la paladina anti Wall Street Elizabeth Warren e due candidati minori, l’imprenditore Andrew Yang e il senatore del Colorado Michael Bennet. Tutti contro il candidato da battere, l’ex vicepresidente ai tempi di Obama, Joe Biden.
Nessuno scommette su un cavallo zoppo
Il bottino era in teoria assai magro, una manciata di delegati rispetto ai quasi quattromila da eleggere che poi a loro volta eleggeranno il candidato alla presidenza. Così come era relativamente magro quello delle primarie, o meglio dei caucus, dell’Iowa. Tuttavia, insieme a quelle del Nevada e del South Carolina, che completano il gruppo di primarie di febbraio, le primarie di Iowa e New Hampshire sono importanti perché possono dare l’abbrivio all’uno o l’altro candidato in vista del Supermartedì nel quale si terranno contemporaneamente le primarie in 15 stati per attribuire un totale di 1.344 delegati. Arrivarci da vincitore o da sconfitto fa una bella differenza in termini di immagine. Nessuno vuole scommettere su un cavallo zoppo.
Vincitori e sconfitti
Ad aggiudicarsi il New Hampshire è stato Bernie Sanders, in vantaggio però rispetto a Pete Buttigieg di solo l’1,3%, meno di 3.700 voti su circa 294.600. Ed è stata una vittoria solo di immagine, importante, ma di immagine. Nella sostanza entrambi prendono nove delegati e Buttigieg, grazie alla vittoria nei disorganizzatissimi caucus dell’Iowa, è in vantaggio di uno: 22 a 21. A perdere è stato sicuramente Joe Biden, il candidato per ora favorito, che non ha portato a casa neanche un delegato del New Hampshire. Dovesse fallire anche in Nevada e South Carolina, dove si è trasferito mentre ancora si votava in New Hampshire, la sua corsa sarebbe praticamente finita.
Ma il vero vincitore è Trump
A vincere veramente le primarie però è stato il presidente Donald Trump. Lunedì 10 febbraio si è presentato nel New Hampshire calamitando l’attenzione dei media il giorno della vigilia delle primarie e rovinando la festa ai democratici. Ad ascoltarlo nel palazzetto dello sport di Manchester, una ex città manifatturiera, erano in 11-12mila fan entusiasti. La disciplinatissima fila per entrare si svolgeva per isolati interi, molti in fila già dall’alba e alcuni persino dal giorno prima. Una platea da far invidia ai candidati democratici che hanno parlato in sale da poche centinaia di persone.
Un’ardua impresa
Il successo di Trump in New Hampshire è emblematico e aiuta a far capire quanto sia ardua l’impresa dei democratici. A novembre i cittadini statunitensi non si recheranno alle urne per eleggere un nuovo presidente, ma in effetti per decidere se rinnovare o meno il mandato a quello attualmente in carica. E sono oltre venticinque anni che il presidente, repubblicano o democratico che sia, viene riconfermato. Sempre.
Negli ultimi quarant’anni solo in due non ci sono riusciti: Jimmy Carter e George Bush. Sr. E in entrambi i casi a giocare un ruolo importante nella mancata rielezione fu la percezione che sotto di loro l’economia avesse sofferto. Per Carter contò anche la vicenda della fallita liberazione degli ostaggi americani nell’ambasciata a Teheran nell’Iran rivoluzionario di Khomeini che lo fece apparire debole e poco deciso.
Il Presidente vince sempre
Perché un presidente non venga rieletto vi deve essere la percezione che le cose non vadano, che egli non sia capace di far marciare il paese, di assicurare o far percepire che le cose stiano andando meglio. E non è il caso di Donald Trump.
L’economia, merito suo o meno, sta vivendo la fase di espansione più lunga della storia americana. Prima o poi si fermerà, ma per ora continua. A beneficiarne non sono solo i ricchissimi, ma anche le classi meno agiate, in primis gli operai delle aree urbane che nel 2016 voltarono le spalle ai democratici e gli regalarono la vittoria. Il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, e come la metti la metti, vuol dire che le cose male non vanno.
Persino la guerra dei dazi, che tanto preoccupava gli economisti, per ora non solo non ha avuto effetti negativi, ma pare funzionare. Il Messico si è dovuto adattare alle nuove regole imposte dagli Stati Uniti limitando la convenienza delle imprese americane a delocalizzare. La Cina ha dovuto cedere nella prima fase del negoziato e al momento ha problemi più rilevanti da affrontare, il coronavirus e le sue conseguenze sociali ed economiche. E proprio in virtù del riposizionamento delle sue aziende seguito alla guerra dei dazi, gli Stati Uniti potrebbero alla fine subire dal punto di vista economico ripercussioni meno rilevanti di quanto sarebbe accaduto qualche anno fa.
L’ottimismo della volontà
A tutto questo i democratici hanno da contrapporre forti divisioni interne, disastri politici come il processo di impeachment, disastri di immagine come il caso organizzativo dei caucus in Iowa e un’assai variegata schiera di candidati. Non manca neanche il pretendente fantasma, il ricchissimo Michael Bloomberg, che per ora paga spot, ma non partecipa al primo round di primarie per non sporcarsi le mani. La base democratica si trova così a scegliere tra anziani socialisti che rifiutano di iscriversi al partito per il quale chiedono i voti, vecchi rappresentanti dell’establishment, ricchissimi magnati dell’informazione e giovani entusiasti, ma inesperti. Uno di loro diverrà il candidato democratico alla presidenza. Bernie Sanders ha galvanizzato i suoi affermando che la vittoria in New Hampshire “è inizio della fine di Trump”. Di certo non pecca di ottimismo.