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Non sarà il petrolio americano a sostituire quello russo

L’ipotesi dell’amministrazione americana è che parte di tale fabbisogno potrebbe essere coperto dai produttori statunitensi. Ma a quanto pare i petrolieri americani non sono dello stesso avviso

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
Foto  Shutterstock
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L’Europa ha fame di energia. Deve sostituire quella sinora fornita dalla Russia e non sarà cosa facile. Il presidente degli Stati Uniti si è impegnato a dare una mano, ma sinora tutto ciò che ne è risultato è la promessa di inviare maggiori forniture di gas naturale liquefatto (GNL), 15 miliardi di metri cubi in più quest’anno, per poi salire fino ad arrivare a 50 miliardi nel 2030. Ben poca cosa se si conta che i paesi UE tra GNL e gas naturale importano dalla Russia quasi 170 miliardi di metri cubi all’anno. Pochissima se a quelle di gas aggiungiamo le importazioni di petrolio pari a circa 2,3 milioni di barili al giorno.

Le ipotesi di Biden e la realtà dei petrolieri

L’ipotesi dell’amministrazione americana è che parte di tale fabbisogno potrebbe essere coperto dai produttori statunitensi: la domanda elevata e soprattutto il rialzo vertiginoso del prezzo del greggio dovrebbero essere incentivi più che sufficienti. Ma a quanto pare i petrolieri americani non sono dello stesso avviso. Nonostante un mercato più che allettante la produzione non si è smossa e da dicembre a oggi i volumi sono rimasti più o meno gli stessi. A stare alle previsioni la situazione non dovrebbe cambiare di molto nei prossimi mesi per smuoversi un po’ solo nel 2023 quando si dovrebbe passare dagli attuali 11,9 milioni di barili a 13 milioni, più o meno quanto veniva prodotto prima della pandemia quando però i prezzi erano quasi la metà. E a nulla sembrano valere le fortissime pressioni dell’amministrazione democratica atterrita dall’idea che il carobenzina possa far definitivamente tramontare ogni speranza di evitare una tragica sconfitta alle elezioni di mid-term il prossimo novembre.

Dal fracking al Covid

La riluttanza delle società petrolifere americane, e dei loro finanziatori, ha una spiegazione. Per un decennio e fino allo scoppio della pandemia la produzione di greggio in America è andata continuamente e rapidamente crescendo. L’utilizzo massiccio del fracking e la crescente disponibilità di petrolio che ne è derivata hanno permesso agli Stati Uniti di divenire il primo produttore mondiale di greggio, praticamente azzerando la loro dipendenza dalle importazioni estere. Poi è arrivato il Covid-19, il mondo si è fermato, la domanda è drasticamente diminuita e con essa i prezzi. A fine marzo 2020 il petrolio era crollato a 15$ al barile dai 60$ di inizio anno. Dopo poco è cominciata la ritirata. I campi petroliferi meno ricchi o meno produttivi sono stati progressivamente abbandonati, i lavoratori mandati a casa, le attrezzature vendute, i finanziamenti rivisti al ribasso. Il boom era finito e, Covid o non Covid, le prospettive per il futuro erano e sono tutt’altro che rosee. L’emergenza climatica, infatti, impone di accelerare la transizione energetica con ruolo progressivamente più limitato dei combustibili fossili. Così tutto il settore si è riposizionato su livelli di produzione più bassi.

Un futuro segnato, un presente incerto

È una prospettiva di lungo periodo sulla quale il rialzo del prezzo del greggio di questi ultimi mesi non incide in alcun modo. Un rialzo tra l’altro sul quale i produttori, scottati dal crollo di inizio 2020, non pongono alcun affidamento. Un futuro segnato e un presente più che mai incerto non sono sufficienti per indurre i petrolieri a decidere di riavviare la produzione dei campi abbandonati, acquistare o affittare le attrezzature necessarie, reperire la manodopera, ormai impegnata in chissà quale mestiere in chissà quale angolo del paese, e andare in cerca dei finanziamenti necessari. Né appare probabile che vi possa essere una frotta di investitori pronti a rischiare in quella che viene ritenuta una bolla temporanea in un settore di retroguardia con il rischio oltretutto che l’aumento di produzione contribuisca al crollo del prezzo. Uno studio della Federal Reserve di Dallas ha evidenziato come la soglia minima perché le società petrolifere americane non vadano in perdita è di 56$ al barile. Tornare alla situazione pre-pandemia potrebbe portare il prezzo troppo vicino a quel valore. Meglio produrre meno a un prezzo quasi doppio come quello attuale di 107$.

Boom e crolli

«C’è un fortissimo riflesso condizionato derivante dal Covid e dal drastico crollo dei prezzi»- ricorda al New York Times Ben Sheppard, presidente di un’associazione di produttori del Texas. «Se fossimo convinti che il prezzo del greggio si manterrà intorno a 75$ al barile o più per i prossimi tre anni, allora sì, ci sarebbe una crescita del capitale investito». E non è solo l’esperienza della pandemia a bruciare. Negli ultimi quattordici anni ci sono stati tre boom dei prezzi ai quali sono seguiti altrettanti crolli.

Messaggi schizofrenici

Di certo non contribuiscono a rasserenare gli animi di petrolieri e investitori i messaggi schizofrenici provenienti da Washington. «Durante la giornata della Terra il presidente ha detto che dobbiamo trovare il modo di fare a meno del petrolio e nello stesso tempo ci stava pregando di trovare due milioni di barili in più da mandare in Europa» – ha ricordato Kirk Edwards, a capo di Latigo Petroleum, un produttore del Texas. «Ma non puoi avere entrambe le cose»

Non è nelle cose

Secondo alcuni analisti il sottosuolo americano offrirebbe ancora notevoli potenzialità di crescita. David Braziel, a capo della RBN Energy, sostiene che in cinque anni la produzione potrebbe passare dagli attuali 12 milioni di barili al giorno a 16 milioni al giorno. Più che abbastanza per rifornire tutto il mercato europeo. Ma non sembra sia nelle cose. Gli europei dovranno trovare altre fonti per supplire al petrolio russo.

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
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