Giannuli: “Ecco perché Regeni non era una spia. Un’infamia messa in giro per insabbiare il caso”
La verità sulla sua morte è un obiettivo difficile, ma non impossibile. Se si vuole sperare di raggiungerlo, l’attenzione dell’opinione pubblica è fondamentale
La verità sulla morte di Giulio Regeni è un obiettivo difficile, ma non impossibile. E se si vuole sperare di raggiungerlo, l’attenzione dell’opinione pubblica è fondamentale. Perché – allo stato degli atti – la via d’uscita più alla portata di mano di quanti vorrebbero metterci una pietra sopra è l’oblio. E’ questa la convinzione di Aldo Giannuli, uno dei massimi esperti italiani in materia di intelligence, autore di innumerevoli pubblicazioni, consulente di commissioni parlamentari d’inchiesta e magistrati inquirenti, titolare di un seguitissimo blog specialistico ( http://www.aldogiannuli.it/) nel quale al “caso Regeni” ha già dedicato due interventi.
L’infamia di Giulio “spia” - “Disgustoso”. Giannuli non usa mezzi termini la diffusione di notizie false e denigratorie sulla figura di Giulio Regeni. In particolare quella – subito smentita dalla famiglia – secondo la quale sarebbe stato un agente dei Servizi segreti. Se i familiari, gli amici e i colleghi respingono questa illazione a partire dalla conoscenza della personalità del giovane ricercatore, Giannuli lo fa con argomentazioni strettamente tecniche.
“Chiunque abbia un minimo di conoscenza del mondo dell’intelligence – spiega – lo capisce in un attimo. Sappiamo che il ragazzo era stato fotografato mentre partecipava a un incontro dei sindacati indipendenti, sappiamo che aveva avvertito attorno a sé una certa attenzione. Bene, davanti a segnali di questo genere un agente adotta immediatamente delle precauzioni. Giulio invece non ne ha adottata alcuna. Inoltre una spia non si espone scrivendo articoli critici nei confronti del governo del Paese che la ospita, eventualmente fa il contrario. E anche se ha avuto il mandato di indagare sugli ambienti dell’opposizione, non lo fa esponendosi in quel modo”.
La tesi della “eliminazione della spia”, inoltre, è incompatibile con quanto è accaduto. Sia nella variante principale (secondo la quale Regeni era davvero un agente), sia nella subordinata (non lo era ma, per errore, hanno creduto che lo fosse). “Quel tipo di trattamento feroce – sottolinea Giannuli – non corrisponde con quanto avviene in casi simili. Una spia, vera o presunta, non viene torturata a morte. E se questo per qualche motivo avviene, il corpo viene fatto sparire”.
Il “messaggio” all’Italia e ad al Sisi - Secondo Giannuli è questa circostanza la “firma” dell’operazione. Gli autori del misfatto avevano tutto il tempo e il modo per far scomparire il cadavere, come peraltro hanno fatto in circa trecento casi analoghi, nei quali le vittime erano cittadini egiziani. “Chiunque abbia compiuto l’azione – dice - se ha fatto ritrovare il corpo di Giulio è stato perché ha voluto che ciò avvenisse. E ha scelto accuratamente il luogo, un luogo poco distante da un centro della polizia, che con tutta probabilità è estraneo al crimine, e il giorno: proprio quando era presente al Cairo una delegazione di imprenditori guidata da un ministro. Tutto questo non può essere casuale, ed è stato elaborato da una mente di un certo livello. L’obiettivo non era una ‘spia’, non era nemmeno Giulio in quanto tale, ma era l’Italia. Regeni è stato ucciso perché italiano. E quanti hanno pensato il delitto sono certamente uomini degli apparati. Uomini ostili al governo di al Sisi che hanno voluto mettere il corpo di Giulio nel mezzo degli affari tra l’Italia e l’Egitto.
La missione impossibile della “versione di comodo” - Parrebbe una tesi fatta apposta per togliere dall’imbarazzo il presidente egiziano e mettere l’Italia nelle condizioni di riprendere i rapporti, in cambio della individuazione di qualche “scheggia impazzita”. Giannuli la vede diversamente. Sottolinea che la posizione di al Sisi è fragile: “E’ un errore vederlo come un proseguimento di Mubarak, di Sadat, di quell’apparato che ha retto l’Egitto per decenni. Nel mezzo c’è stata la rivolta di Piazza Tahrir, che ha lasciato il segno. E’ in atto uno scontro feroce all’interno dei vertici e aderire a questa cosiddetta ‘versione di comodo’, che in realtà non lo è affatto, è tutt’altro che facile per al Sisi: sarebbe un pubblico riconoscimento delle proprie difficoltà e della propria debolezza. L’omicidio Regeni è stato messo in atto da ‘apparati deviati’ importanti, altrimenti l’azione sarebbe stata bloccata quando era in corso. In definitiva, non è semplice per al Sisi chiudere il caso attribuendolo a ‘schegge impazzite’ e facendo qualche arresto. Non sarebbe credibile se adesso prendessero qualche poliziotto di quartiere attribuendogli l’intera responsabilità e magari facendolo poi trovare impiccato in cella. Non basterebbe. E, quanto ai veri responsabili, si tratta di personaggi che godono di forti coperture e, probabilmente, si sono anche tutelati per conto loro. Nessuno è in grado di prevedere cosa potrebbe saltare fuori se fossero eliminati”.
La strategia dell’oblio - Sulla “soluzione di comodo” sono al lavoro le migliori menti dell’intelligence, ma è molto difficile trovarla. “La coperta – sottolinea Giannuli – è troppo corta. Comunque la metta, resta fuori qualcosa. Ed è a partire da questo che le voci su Regeni spia non vanno lette come pure e semplici infamie. Sono funzionali a indebolire la pressione dell’opinione pubblica sul governo”.
Perché, in assenza di soluzioni per risolvere in maniera accettabile il ‘caso Regeni’, c’è la tecnica generale, utilizzata con successo anche in tanti dei cosiddetti “misteri d’Italia”. Consiste nel disseminare le indagini di voci contraddittorie, di false piste. Creare confusione. E contemporaneamente gettare ombre sulla figura di Regeni. Lanciare il sospetto che fosse un agente, non serve solamente a diffondere l’idea che “se l’è cercata”, ma anche a spegnere l’indignazione dell’opinione pubblica. Che, per come si sono messe le cose, è il peggior nemico di quanti vorrebbero insabbiare il caso.
La “tecnica generale” è infatti quella dell’oblio: far finire più rapidamente possibile il ‘caso Regeni’ nel dimenticaio. Relegarlo al dibattito tra specialisti di intelligence e alle commemorazioni ufficiali. Chiuderlo nel marmo delle targhe col suo nome che saranno apposte in qualche via, all’ingresso di qualche università o di qualche scuola. “Se si vuole conservare la speranza di avere un giorno la verità – conclude Giannuli – è fondamentale che la pressione dell’opinione pubblica non si attenui e anzi, se possibile, cresca”.