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[L’analisi] Europa si, Europa no. Dove nasce la crisi? La Brexit e la narrazione sbilanciata dei media britannici

L’uscita dall’Ue inizia ad apparire per quel che davvero è: un vero e proprio terremoto, che dopo aver causato uno stravolgimento politico ed messo seriamente in discussione la tenuta del Regno Unito

Paola Pintusdi Paola Pintus, editorialista   
[L’analisi] Europa si, Europa no. Dove nasce la crisi? La Brexit e la narrazione sbilanciata dei...

 

Europa si, Europa no, Europa forse. I riflettori della stampa occidentale sono puntati in queste ore su Roma dove si attende l’ormai certa bocciatura, entro mercoledì, della manovra da parte della Commissione Europea.  Un braccio di ferro con le istituzioni europee annunciato e consumato via via nello stillicidio degli ultimi mesi ma che, nonostante tutto, non ha intaccato il consenso degli italiani verso il governo giallo verde, ancora saldo al 60%. Se in queste ore l’atteggiamento tetragono del nostro governo ha attirato su di sé tutte le attenzioni, facendo apparire l’Italia come l’epicentro della crisi europea, tuttavia per avere un quadro della situazione occorre non trascurare quel che accade, contemporaneamente, al di là della Manica. E’ lì che occorre volgere lo sguardo per capire da dove nasce, prima che  altrove,  la crisi europea  e come può essere arginata.

E’ lì che il tradizionale isolazionismo inglese, misto ad un senso di superiorità ereditato dai tempi dell’impero, si è trasformato in aperto euroscetticismo . E’ lì che è montata sempre più l’insofferenza ai vincoli e alle regole comuni, condivise da tutti gli stati europei ma mai fino in fondo dal governo britannico, che infatti non ha mai aderito all’Euro. Ed è sempre li infatti che si è prodotto il primo vero strappo con Bruxelles, col fatidico esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, salutato all’indomani del voto, il 24 giugno del 2016, dal titolo evocativo del Sun “See Eu later” Ci vediamo dopo, con quel gioco semantico in cui al posto di you leggevi Eu, Europa. Un canzonatorio addio celebrato con leggerezza dal popolare tabloid della famiglia Murdoch che due anni dopo si trasforma in un meno entusiastico “We are in Brexshit”.  La Brexit non è più la soluzione a tutti i mali, ma anzi, il gioco di parole la accosta ad una situazione di grave difficoltà: la traduzione suona più o meno “siamo nella m…”

Ed in effetti l’uscita dall’Ue inizia ad apparire per quel che davvero è: un vero e proprio terremoto, che dopo aver causato uno stravolgimento politico ed messo seriamente in discussione la tenuta del Regno Unito (con la Scozia pronta a far le valige pur di rimanere in Europa), dopo due anni di trattative difficilissime ora giunge all’Accordo con Bruxelles che il prossimo 25 novembre, in occasione del vertice straordinario UE proverà a porre una pezza, non certo indolore per la premier britannica Theresa May, né per le istituzioni europee. Da un lato infatti l’uscita della Gran Bretagna farà mancare la bellezza di 10 miliardi l’anno al bilancio UE. Alla Gran Bretagna andrà pure peggio, con costo calcolato a carico delle famiglie britanniche di 900 sterline per nucleo e con gli irriducibili Brexiteers  per nulla propensi all’estensione del periodo di transizione commerciale fino al 2022, offerto dall’UE, in cui Londra dovrebbe continuare a contribuire al bilancio comune aggiungendo circa 15 miliardi di sterline ai 40 che già deve a Bruxelles. 

All’approvazione del testo dell’Accordo da parte dei ministri degli Affari Europei a Bruxelles, dovrà seguire poi quella del Parlamento di Londra, tutt’altro che scontata. La contesa fra i sostenitori della Hard o della Soft Brexit è ancora molto accesa e si svolge su due diversi campi di battaglia: quello politico e quello mediatico, con un una spaccatura senza precedenti fra le principali testate del regno, schierate per l’una o per l’altra opzione. Una battaglia che ha visto i tabloid più popolari come il “Sun” sbilanciarsi apertamente  per l’opzione del leave, con posizioni fortemente anti-europee e quotidiani più blasonati, come il Financial Times, fermi sulla linea dell’equidistanza. 

Ne dà conto Alberto Magnani sul Sole 24 Ore, osservando come la Brexit abbia costretto anche la compassata industria editoriale d’oltre Manica a una scelta di campo decisamente inusuale per lo stile “british” e più marcatamente ideologica rispetto al tradizionale stile “fattuale” del giornalismo anglosassone. Il fact checking, l’osservazione dei dati, non vengono meno ma in alcune testate più che in altre si è assistito ad una  “narrazione” decisamente sbilanciata sul fronte del “leave”. Persino l’autorevole televisione di stato BBC ad un certo punto non è riuscita a evitare uno scivolone: è successo quando ha invitato nei suoi studi il discusso miliardario pro-leave Arron Banks, giustificando la sua presenza con motivazioni di “pubblico interesse”.

Un giornalismo piegato, quasi suo malgrado, a far da megafono alle opinioni più estreme, a prescindere dall’autorevolezza di chi le esprimeva,  e che ha contribuito alla creazione di quelle “bolle cognitive” fra elettori schierati pro e contro la Brexit prima e dopo il Referendum. Per ritrovare l’equilibrio nella delicata fase di transizione che sta vivendo l’Inghilterra occorrerà ripartire anche da qui, con un’informazione bilanciata e attenta alla rappresentazione della realtà. Senza censure e senza pregiudizi, mai al servizio della superficialità . Una lezione da tenere a mente anche in Italia, a prescindere dal colore politico degli inquilini di turno nei palazzi del potere. 

Paola Pintusdi Paola Pintus, editorialista   
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