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Per il presidente turco Erdoğan tanti successi all’estero e molti problemi in casa

Ha giocato un ruolo centrale nella delicata partita diplomatica che ha portato all’intesa sul grano ucraino, ma il prossimo anno in Turchia sono previste le elezioni presidenziali e quelle politiche, e il “Sultano” potrebbe perdere entrambe le sfide

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
Foto Ansa
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Grano ucraino. Finalmente è stata siglata un’intesa che dovrebbe consentire la fine del blocco nel Mar Nero e la ripresa della sua esportazione così come di quello russo e dei fertilizzanti prodotti in entrambi i paesi. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, come usa dire e come dimostra il successivo quasi immediato bombardamento russo dei depositi di cereali nel porto di Odessa, ma almeno l’accordo finalmente c’è. Prima della guerra i due paesi contavano circa un terzo delle esportazioni mondiali di grano e un quarto di quelle di orzo, cui si aggiungevano quelle cospicue di olio di girasole. Il rischio di una drammatica crisi alimentare nei paesi più poveri e in particolare in quelli africani e mediorientali come Nigeria, Somalia, Etiopia, Sudan, Egitto, Siria e Yemen, che avrebbe portato alla fame milioni di persone, potrebbe essere stato evitato.

A giocare un ruolo centrale nella delicata partita diplomatica che ha portato all’intesa è stato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che ha ospitato la cerimonia della firma e la cui marina, insieme agli ispettori dell’ONU, che pure ha contribuito alla soluzione, sarà garante del rispetto degli accordi.

Un successo di Erdoğan

Per il presidente turco si tratta di un evidente e notevole successo reso possibile da diversi fattori. Innanzitutto i suoi buoni rapporti, anche militari con entrambe le parti in causa. In secondo luogo il dominio turco sugli stretti dei Dardanelli e del Bosforo che rende necessario e fondamentale l’assenso turco per qualsiasi accordo sul traffico navale. Infine, a rafforzare la posizione di Istanbul c’è l’appartenenza “eccentrica” della Turchia alla Nato, sottolineata dalla vicenda dell’adesione di Svezia e Finlandia, e la varietà di atteggiamenti e di posizioni avuti nelle crisi e nei conflitti che hanno insanguinato o solo agitato le acque del Mediterraneo nell’ultimo decennio e che, a seconda delle convenienze e della situazione, l’hanno resa alleata o avversaria di Russia, Stati Uniti e dei principali paesi europei.

Salti mortali

Il successo in politica estera, tuttavia, in patria ha spesso le gambe corte e non porta lontano, a meno che non garantisca prosperità e benessere, o quanto meno abbondanza di merci e prezzi bassi. Ma non è questo il caso. Mentre Erdoğan stringe mani soddisfatto e aggiunge tasselli alla sua politica di espansione e dominio nel Mediterraneo, il cosiddetto neo-ottomanesimo, i suoi cittadini in patria sono costretti a fare i salti mortali per mettere insieme il pranzo con la cena. E la responsabilità è in buona parte del loro presidente.

Al potere da vent’anni

In un modo o nell’altro Erdogan è al potere da circa vent’anni. Per i primi dieci anni, dal 2003 al 2014, quando rivestiva la carica di primo ministro, le cose non sono andate male, anzi: l’economia cresceva con tassi tra il 9% e l’11% e all’estero c’era chi parlava di miracolo economico turco. Il modello perseguito era quello classico del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale: riforme, progetti infrastrutturali, apertura dell’economia, investimenti esteri. Il miracolo, tuttavia, poggiava su basi fragili. La Turchia infatti esporta poco e non ha grandi risorse naturali, in particolari energetiche. L’economia soffriva quindi di uno squilibrio di fondo, troppe poche esportazioni rispetto alle importazioni e troppa dipendenza dai flussi di investimenti esteri, il che la rendeva molto esposta ai venti della congiuntura internazionale.

Fedeltà invece di competenza

Dopo il fallito colpo di stato del 2016, la stretta di Erdoğan sul paese si è fatta progressivamente più forte, il suo controllo delle istituzioni e della società sempre più pervasivo. La sua politica economica non solo è divenuta sempre più dirigista, ma è stata affidata a persone a cui era richiesta fedeltà invece di competenza e autonomia di giudizio. La crescita veniva garantita grazie a tassi d’interesse bassi e a un crescente indebitamento verso l’estero accompagnato da una crescita del debito delle imprese.

L’inedito “nuovo modello economico”

Non poteva durare per sempre e nel 2018 la bolla esplode. La lira turca crolla, l’inflazione arriva a toccare il 24,5%. Come da manuale la banca centrale aumenta drasticamente i tassi d’interesse, ma la cosa non piace al presidente Erdoğan che non solo non vede di buon occhio la brusca frenata all’economia che sarebbe seguita al rialzo dei tassi, ma nutre l’inedita opinione che tassi più alti non avrebbero fatto altro che peggiorare l’inflazione. Era quello che sarebbe poi stato grandiosamente battezzato il “nuovo modello economico”. Cosìa luglio del 2019 il governatore della banca centrale viene indotto alle dimissioni e sostituito con uno più disponibile a seguire le illuminate direttive presidenziali. Come richiesto i tassi vengono rapidamente ridotti e in un anno si dimezzano passando dal 18,5% al 9,0%.

Un governatore via l’altro

Per un po’ le cose si stabilizzano e l’inflazione si assesta, ma intanto la lira turca continua a cedere terreno finché il 5 novembre 2020 in un solo giorno perde il 30%. Il giorno successivo Erdoğan senza tanti complimenti licenzia il governatore nominato poco più di un anno prima e lo sostituisce con il suo ex ministro delle finanze, naturalmente un fedelissimo, considerato dagli analisti come un “decente tecnocrate”, in contrapposizione al suo “disastroso” predecessore.

Il disastro

Passa meno di un anno e le cose dopo aver continuato lentamente, ma inesorabilmente a peggiorare, all’improvviso appaiono sfuggire di mano. A dicembre dello scorso anno l’inflazione supera il 36%, e la lira turca perde il 40% del suo valore. Da lì in poi è il disastro.  A giugno di quest’anno l’inflazione arriva all’80%, dieci volte quella italiana, già elevatissima per i nostri standard, mentre la lira turca ormai vale sui mercati esteri meno della metà di quello che valeva un anno prima. Il tasso d’interesse, tuttavia, per preciso volere presidenziale, invece di essere rialzato drasticamente, rimane inchiodato lì dov’era.

Lo spettro dell’Argentina

Il crollo della lira e l’inflazione all’80% intanto devastano la società turca in uno scenario che comincia a far apparire in lontananza lo spettro dell’Argentina. Le famiglie fanno sempre più fatica ad arrivare a fine mese, gli acquisti si sono ridotti e spesso si limitano ai beni essenziali. Tutto è diventato troppo caro, anche la frutta, e a poco sembra servire il rialzo del 30% del salario minimo, il secondo in sei mesi, voluto da Erdoğan a inizio luglio nel tentativo di tamponare la situazione. «Stiamo adottando diverse misure per compensare la predita di prosperità della nostra gente, soprattutto dei nostri lavorator e continueremo a farlo», ha dichiarato il presidente turco annunciando il rialzo. Ma il rimedio alla fine potrebbe non far altro che peggiorare la situazione, alimentando la classica spirale inflazione- salari-inflazione. Senza l’amara medicina di un rialzo dei tassi, sembra improbabile che si riesca a fermare la corsa dei prezzi, stabilizzare la valuta e arrestare il crescente deterioramento dell’economia.

Il potere distruttivo dell’inflazione

La superinflazione, come purtroppo insegna l’esperienza, è tra i fattori più distruttivi non solo per l’economia, ma anche per la società. Colpisce duro non solo i poveri, ma anche la piccola borghesia e la classe media. Alcuni prosperano, ma in molti non solo soffrono, ma si trovano senza più prospettive. E così non di rado l’instabilità economica diviene instabilità sociale che a sua volta diviene richiesta di cambiamento politico, soprattutto se chi è al potere si gloria di perseguire un “nuovo modello economico”.

Le cose si mettono male per il Sultano

In Turchia il prossimo anno sono previste le elezioni sia presidenziali che politiche. E le cose cominciano a mettersi male per Erdoğan. L’elettorato è sempre più sfiduciato e la possibilità che il “Sultano” perda entrambe le elezioni sta facendosi via via più concreta. L’esito, tuttavia, è ancora incerto. L’opposizione è costituita da un’alleanza di sei partiti che appare poco unita, priva di solide basi comuni e di un leader carismatico e riconosciuto dietro al quale essere schierati. Risultato, gli elettori faticano fidarsi e alla fine in molti potrebbero rifugiarsi nell’astensione, il che potrebbe favorire l’opposizione, sempre che quest’ultima non si suicidi in una lotta fratricida per stabilire chi dovrebbe essere il suo candidato presidente. E che Erdoğan non anticipi le elezioni o ricorra a sistemi poco ortodossi.

Come diceva quel tale…

Sarà quel che sarà, quello che si può dire ora è che a nulla valgono i successi in politica estera se nel mentre il paese soffre. Quando si tratta di elezioni lo slogano coniato dallo staff di Bill Clinton rimane sempre vero: “It’s the economy, stupid”.

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
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