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Dire “stop al genocidio” è diffondere odio? Basta un commento sui social per riequilibrare le parole dell'Ad della Rai?

Fantacensura sul diritto alla libertà di espressione a Sanremo. Spesso, la musica viene utilizzata come uno strumento per esprimere dissenso, mobilitare le masse e portare avanti messaggi di cambiamento sociale

Alice Bellantedi Alice Bellante   
Dire “stop al genocidio” è diffondere odio?
Immagine creata con Bing Image Creator

“Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile. Nella strage del 7 ottobre, tra le 1200 vittime, c'erano oltre 360 giovani trucidati e violentati nel corso del Nova Music Festival. Altri 40 di loro, sono stati rapiti e si trovano ancora nelle mani dei terroristi": lo ha scritto su X l'ambasciatore israeliano in Italia Alon Bar.

Da un tweet su X pubblicato sul profilo personale dell’Ambasciatore si è arrivati ad un comunicato stampa letto in diretta a Domenica In dalla conduttrice Mara Venier in cui l’Amministratore Delegato della RAI, Roberto Sergio, dichiara: “Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla comunità ebraica è sentita e convinta”.

La prima cosa che mi viene in mente è: ma tutto a posto?

Il rapporto tra musica e politica è fenomeno di lunga data sia in Italia che nel resto del mondo. Spesso, la musica viene utilizzata come uno strumento per esprimere dissenso, mobilitare le masse e portare avanti messaggi di cambiamento sociale. Mazzini riconobbe alla musica la capacità pedagogica di costruire l’Italia. Il fascismo portò avanti una grande opera di investimento nella musica, considerandola uno strumento di costruzione del consenso. Negli anni '60 negli Stati Uniti, Bob Dylan cantava "Blowin' in the Wind", diventando un'icona del movimento per i diritti civili. Durante la Primavera Araba, la musica è stata un elemento chiave per esprimere il dissenso e la resistenza contro regimi autoritari e per sostenere la richiesta di libertà, democrazia e dignità umana.

La musica come diceva Frank Zappa è un agitarsi di molecole nell’aria, una potente forma di espressione artistica che può ispirare, unire e motivare le persone a lottare per un mondo migliore.

Questa descrizione dovrebbe spingerci ad interrogarci. Dire stop al genocidio, chiedere un cessate il fuoco, in occasione del Festival di Sanremo, uno degli eventi televisivi con la più alta esposizione mediatica, può davvero corrispondere alla diffusione di odio e provocazioni? Dire basta al genocidio lede in qualche maniera la memoria di quanto accaduto il 7 ottobre, le vittime di quella tragica giornata, gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas a Gaza?

In risposta, invece, fare un comunicato stampa parlando esclusivamente dell’impegno dell’emittente televisiva nazionale nel raccontare la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas nei telegiornali e i nei programmi tv sembra equilibrato? Per fortuna, le parole non rispecchiano la pratica. Raccontare solo una faccia della medaglia, senza parlare di ciò che accade a Gaza, delle 25.000 vittime, non rappresenterebbe un modo virtuoso di fare informazione per il primo polo televisivo in Italia, una delle più grandi aziende di comunicazione d'Europa, quinto gruppo televisivo del continente.

Allo stesso modo, come dovrebbe essere considerata la “sentita e convinta solidarietà” dell’AD Sergio al popolo di Israele e alla comunità ebraica? Il dott. Sergio ha aggiunto solo in un secondo momento su qualche piattaforma social di provare orrore anche per le stragi che si stanno verificando a Gaza. Il peso specifico delle parole dell’uomo al vertice della società che si occupa di informare una buona porzione del popolo italiano, non equivalgono proprio a quelle di Pino il falegname, che ha la terza media ed ha appena detto la prima cosa che gli è passata per la testa. Un comunicato stampa passa un iter approvativo prima di essere divulgato in diretta televisiva, quindi per salvarsi la faccia, forse, non basta un commentino sulle piattaforme di Zuckerberg

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