Dalla rimozione di Black Lives Matter Plaza alla censura politica: lo stato della libertà di espressione negli USA
La cancellazione della scritta simbolo delle proteste del 2020 segna un cambiamento politico e culturale. Tra slogan di protesta, divieti imposti da Trump e nuovi limiti al dissenso, gli Stati Uniti attraversano una fase critica per la libertà di parola.

Un simbolo che scompare: la fine di Black Lives Matter Plaza
La rimozione del murale Black Lives Matter a Washington D.C., avviata l'11 marzo 2025, segna la chiusura di un’era iniziata nel 2020. Situato sulla 16th Street NW, vicino alla Casa Bianca, la scritta era stata realizzata nel pieno delle proteste per l'uccisione di George Floyd, diventando un'icona della lotta contro l'uso eccessivo della forza da parte della polizia e le ingiustizie razziali. Di recente, il suo destino è stato compromesso da pressioni politiche: alcuni esponenti del Partito Repubblicano hanno minacciato di tagliare i fondi federali alla città se la scritta non fosse stata eliminata e la piazza rinominata.
Questa decisione si inserisce in un più ampio dibattito sulla libertà di espressione negli Stati Uniti, dove il significato degli spazi pubblici e delle parole è sempre più soggetto a ridefinizioni politiche.
Dal 2020 al 2025: gli slogan che hanno segnato il dibattito pubblico
Negli ultimi cinque anni, diversi slogan hanno dominato la scena politica e sociale americana, riflettendo tensioni profonde e contrasti ideologici.
Defund the Police, nato dalle stesse proteste di Black Lives Matter nel 2020, chiedeva di ridistribuire i finanziamenti destinati alla polizia verso servizi sociali e comunitari. Dopo un’ondata iniziale di sostegno, il termine è stato sempre più strumentalizzato per attaccare alcune politiche progressiste sulla sicurezza, come la riduzione dei finanziamenti alla polizia o l'implementazione di squadre di intervento sociale.
Stop the Steal, usato dai sostenitori di Donald Trump per denunciare presunti brogli nelle elezioni presidenziali del 2020, ha alimentato la retorica complottista che ha portato all’assalto del Campidoglio il 6 gennaio 2021.
We Will Not Be Silenced, emerso durante le proteste studentesche contro la censura nelle università, è stato adottato da attivisti di entrambi gli schieramenti politici, dai progressisti in difesa del diritto di protestare ai conservatori che lamentavano la "cancel culture".
Questi slogan non sono solo parole, ma rappresentano movimenti e battaglie ideologiche che continuano a dividere il Paese. E ad oggi, è proprio sul linguaggio e sul suo controllo che si gioca una delle sfide più complesse per la democrazia americana.
Trump e la regolamentazione della parola: chi decide cosa si può dire?
A gennaio 2025, il presidente Donald Trump ha firmato l’Ordine Esecutivo 14149, noto come "Restoring Freedom of Speech and Ending Federal Censorship", con l’obiettivo dichiarato di impedire che risorse pubbliche venissero utilizzate per limitare la libertà di parola. Se da un lato l’ordine è stato accolto con favore da chi lo vedeva come una difesa contro la "censura progressista", dall’altro ha suscitato preoccupazioni per il suo impatto sulla lotta alla disinformazione. Molti esperti hanno avvertito che questa misura potrebbe ostacolare gli sforzi per contrastare notizie false e teorie complottiste, dando ulteriore spazio a narrazioni ingannevoli nel dibattito pubblico.
Parallelamente, l’amministrazione Trump ha adottato una politica aggressiva nei confronti delle istituzioni accademiche e ha introdotto una lista di parole bandite nei documenti ufficiali federali, tra cui termini come 'diversità', 'inclusione', 'equità' e 'giustizia razziale'. Secondo i critici, questa misura rappresenta un tentativo di limitare il dibattito su questioni sociali rilevanti, mentre i sostenitori la vedono come una protezione contro l'ideologia progressista imposta dalle istituzioni governative.
Inoltre, le università che non reprimono proteste ritenute "illegali" rischiano la perdita di finanziamenti federali. La Columbia University, ad esempio, ha subito un taglio di 400 milioni di dollari a causa delle manifestazioni pro-palestinesi nel campus. Ufficialmente, la misura è stata motivata come un’azione contro l’antisemitismo, ma solleva interrogativi sulla soppressione del diritto al dissenso.
Libertà di espressione o censura selettiva?
Gli Stati Uniti si trovano in un momento di ridefinizione del concetto di libertà di espressione. Se nel 2020 le piazze e i social media sembravano il terreno per una nuova ondata di attivismo e contestazione, oggi il pendolo sembra oscillare nella direzione opposta: la rimozione di simboli, il controllo delle manifestazioni e le politiche linguistiche imposte dal governo stanno ridisegnando i confini del dibattito pubblico. Il paradosso è evidente: mentre si parla di “difendere la libertà di parola”, nuove restrizioni emergono per determinare chi può parlare e di cosa. E la domanda rimane aperta: il futuro dell’America sarà guidato dalla protezione del dissenso o dalla sua repressione?