[Il retroscena ] Governo ancora battuto e Gb nel caos: i nodi e i possibili scenari di una Brexit infinita
Dopo mesi tumultuosi, il governo in carica è stato brutalmente battuto tre volte, nel giro di pochi giorni, sulle sue proposte per realizzare la separazione della Gran Bretagna dall’Unione europea, che, in teoria, dovrebbe scattare a fine marzo
“La politica nazionale sembra la scena di un incidente automobilistico” ha scritto un autorevole commentatore britannico. Feriti, carcasse di auto fumanti, detriti, chiazze d’olio scivolose sull’asfalto, guard rail divelti, litigi su ricostruzioni del tutto incompatibili dell’evento: il caos che vede chi passa di lì, prima che arrivino la stradale e le autoambulanze. Perché, dopo quasi tre anni di feroce dibattito, i soccorsi, a Londra, non sono ancora arrivati. Invece, come dopo lo scontro fra due macchine, sul terreno ci sono carriere politiche distrutte, credibilità bruciate (come quella della May), soluzioni abortite, trappole e insidie burocratiche e logistiche, garanzie giuridiche forzate o compromesse. Ora, dopo mesi tumultuosi, il governo in carica è stato brutalmente battuto tre volte, nel giro di pochi giorni, sulle sue proposte per realizzare la separazione della Gran Bretagna dall’Unione europea, che, in teoria, dovrebbe scattare fra pochi giorni, a fine marzo.
Il nodo irlandese
Chi guarda, insomma, con sgomento alla paralisi, i giri a vuoto, le promesse sospese, gli scaricabarile, le trappole che punteggiano il faticoso procedere dell’attuale governo italiano può rifarsi gli occhi guardando l’implosione del sistema politico britannico, un dramma che ha ormai assunto i toni della farsa, guardata con aperta irrisione da tutta la stampa. Eppure, il gorgo che ha inghiottito, finora, tutti i tentativi di venire a capo di un accordo sulla Brexit era lì, visibile a tutti, fin dall’inizio. E’ l’unico confine di terra fra la Ue e la Gran Bretagna. Corre fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, oggi ambedue nella Ue, ma domani, con la Brexit, non più. Ripristinarlo significa riaprire vecchie ferite e divisioni in Irlanda. Non metterlo, significa tenere gli inglesi legati all’unione doganale con l’Europa, chiudendo la possibilità di accordi commerciali indipendenti. Theresa May ha concordato con Bruxelles che il confine non ci sarà, fino a che non si sarà trovata una soluzione tecnologica, che consenta di superarlo. Molti nel suo partito, pensano che questo significhi essere legati a tempo indeterminato all’unione doganale. La politica nazionale britannica si è schiantata su questo ostacolo.
La May ci riprova
Forse si schianterà, una volta di più, la prossima settimana. La May, infatti, ha deciso di ripresentare l’accordo che ha definito con Bruxelles, anche se rischia una quarta sconfitta. A Downing Street sperano, infatti, che il centinaio di deputati conservatori euroscettici, favorevoli ad un divorzio secco e non consensuale con la Ue, si convincano a votare la proposta del premier, anche se la ritengono rinunciataria, perché ora c’è il rischio concreto che la soluzione finale lo sia anche di più. Tuttavia, non si capisce perché il Parlamento sia chiamato ad esprimersi, a getto continuo, sulla stessa proposta di Brexit e questa possibilità sia invece negata agli elettori che, forse, affronterebbero un nuovo referendum con una visione più chiara e consapevole di cosa comporti la separazione dalla Ue. O, anche, perché, se i partiti sono vincolati alla promessa, fatta alle ultime elezioni, di rispettare il risultato del referendum del 2016, non si possa puntare a nuove elezioni che consentano ad ognuno di ridefinire la propria posizione e di uscire dall’attuale vicolo cieco.
Il Paese in ostaggio
In realtà, molti pensano che una soluzione sia a portata di mano. Un accordo fra la May e l’opposizione laburista che presupponga il mantenimento dell’unione doganale con l’Europa. La “soluzione Norvegia”, come è stata definita, una “soft Brexit”. Ma il premier preferisce tenere in ostaggio la politica nazionale per salvaguardare l’unità del suo partito, dove gli euroscettici non l’accetterebbero mai. Non è, del resto, una novità. Tutto l’attuale, immenso, pasticcio è il risultato della scommessa perduta dal premier precedente, David Cameron, che pensava di tacitare, una volta per tutte, la rumorosa ala degli euroscettici con il referendum del 2016 che, invece, gli si rivoltò contro. Non è, tuttavia, un problema solo dei conservatori. Il referendum sulla Brexit, infatti, ha rivelato la mappa di un paese profondamente diviso. Il 48 per cento di favorevoli all’Europa è concentrato nella mega area metropolitana di Londra, in Scozia, Irlanda del Nord e buona parte del Galles. Il 52 per cento di sì alla Brexit occupa, di fatto, tranne la capitale, tutta l’Inghilterra, dove, evidentemente, il senso di identità è più forte, la nostalgia dell’impero e l’ambiguità di fronte al progetto europeo sono più marcate.
Il risultato è stato che un buon numero di deputati tory rappresenta collegi contrari alla Brexit, ma, soprattutto, che una quota importante di deputati laburisti è stata eletta in quel Nord d’Inghilterra compattamente antieuropeo. Questa duplicità ha bloccato sul nascere il riallineamento dei partiti (antieuropei da una parte, filoeuropei dall’altra) che una scelta epocale come quella della Brexit sembrava presupporre e ha precipitato la Gran Bretagna nell’impasse attuale.
Londra e Bruxelles
Sono cambiate le cose, nell’Inghilterra profonda, ora che le conseguenze della Brexit – a cominciare dalla ritirata delle fabbriche di auto giapponesi, spaventate dall’uscita dall’Europa, proprio nel Nord – sono diventate più chiare? Probabilmente, non lo sapremo mai. Anche se, nell’attuale confusione, tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo, compreso un nuovo referendum o nuove elezioni, gli sbocchi più verosimili sono tre. In ordine crescente di probabilità: una rottura netta, con l’uscita dall’Europa senza accordi (no deal o hard Brexit); una Brexit temperata da una unione doganale, in seguito ad un accordo con l’opposizione laburista (soft Brexit); il vecchio progetto May, compresa la sospensione nordirlandese. Come uno zombie, infatti, la proposta originale della premier verrà riproposta al voto per la terza volta nella prossima settimana. Ma a quel punto, il pasticcio inglese sarà diventato europeo, tracimando fino a Bruxelles.
Il Parlamento inglese, infatti, ieri sera ha chiesto all’Europa di far slittare i termini per far scattare la Brexit, visto che ormai siamo troppo a ridosso della scadenza. Tuttavia, se lo zombie della May riacquistasse vita, diventando la posizione ufficiale del Parlamento, potrebbe bastare un rinvio tecnico di un paio di mesi. Se, invece, si dovesse ripartire da zero, occorrerebbe molto più tempo, forse un anno o anche due.
La scelta dell'Europa
A decidere dovranno essere, la prossima settimana, non gli inglesi, ma i leader europei, all’unanimità. Comprensibilmente, hanno fatto sapere a Londra che sono pronti a garantire il rinvio, ma di fronte ad un preciso progetto britannico (un nuovo accordo, elezioni, referendum, scelga Londra) e non al buio. Tuttavia, è impensabile che un nuovo progetto – se quello della May dovesse definitivamente cadere – possa essere pronto in tre mesi. Ed è qui che la questione si ingarbuglia. Il problema sono le elezioni Ue di fine maggio che, in questo momento, assorbono tutte le preoccupazioni delle capitali europee. Se, infatti, nel giorno del voto, la Brexit non sarà ancora stata proclamata, i britannici devono votare. Altrimenti, le elezioni potrebbero essere invalidate. Ma se gli inglesi votano e, presumibilmente, conservatori e laburisti evitano di impegnarsi in una campagna elettorale scivolosa oltre che, presumibilmente, superflua, c’è il rischio che a fare il pieno di seggi siano gli ultraantieuropei dell’Ukip, che andrebbero a rimpolpare le truppe populiste al Parlamento di Strasburgo, vero spauracchio, oggi, dei leader europei.
E’ possibile trovare una scappatoia giuridica per non far votare gli inglesi, anche se la Brexit non è ancora avvenuta? Forse i giuristi, sempre inventivi, di Bruxelles ci possono riuscire, ma la strada è stretta e tortuosa. Ecco perché, sia pure a malincuore, a Bruxelles, in questi giorni, si tifa per la May e il suo zombie.