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Rosatellum: la legge elettorale detta "facile". Ma senza “voto disgiunto” e desistenza

Con questa legge elettorale si è già votato nel 2018. E' un sistema ‘misto’: per tre quarti è un proporzionale (al 61%) e per un terzo è un maggioritario, basato sui collegi uninominali (al 37%), più un modesto 2% di proporzionale puro per i seggi dove votano gli italiani all’estero

Ettore Maria Colombodi Ettore Maria Colombo   
Rosatellum: la legge elettorale detta 'facile'. Ma senza “voto disgiunto” e desistenza

Come ormai sanno anche i sassi, oggi si vota per le elezioni politiche anticipate e per scegliere i 400 deputati e 200 senatori della XIX legislatura. I seggi saranno aperti dalle 7 alle 23 e e le schede che verranno consegnate agli elettori sono due: una di colore rosa per la Camera e di colore giallo per il Senato. I fac-simile delle schede elettorali sono stati diffusi dal Viminale. Come sempre, si vota anche nelle carceri e negli ospedali, reparti Covid inclusi. Le elezioni riguardano 146 collegi uninominali per l'elezione della Camera dei deputati, 67 collegi uninominali per l'elezione del Senato della Repubblica, più i relativi collegi plurinominali (49 per la Camera, 26 per il Senato) per l'assegnazione proporzionale di questi seggi.

Tra le avvertenze, oltre a quella di portare con sé un documento, è opportuno ricordare che i bambini non potranno accompagnare i genitori in cabina elettorale e, in questa, non potranno essere introdotti telefoni cellulari o simili dispositivi.

A cosa serve la legge elettorale

Ma a cosa servono le leggi elettorali? Domanda facile, risposta semplice: a trasformare i voti dei cittadini in seggi. Si chiama democrazia ‘mediata’: è ‘partecipata’, certo, ma non ‘diretta’. Del resto, tranne nella ‘polis’ dell’antica Atene e in qualche cantone svizzero, la democrazia ‘assembleare’ in cui credeva il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau – non è un sistema praticabile in democrazie complesse. Serve, dunque, un ‘sistema’, che è insieme politico, tecnico e pure matematico (o, meglio, algebrico) per mettere in campo una sorta di ‘bacchetta magica’: i cittadini sono tanti – milioni di milioni, come diceva la pubblicità – e i Parlamenti sono composti da poche centinaia (in alcuni casi, poche decine) di membri che devono ‘interpretare’, al loro meglio, la volontà popolare. I partiti, dunque, si presentano alle elezioni, sulla base di un ‘programma’ e di un ‘capo politico’, a volte in alleanza, altre da soli, e chiedono i voti. Quei voti, il giorno dopo il voto, diventano seggi.

I due sistemi elettorali classici: proporzionali e maggioritari

Bene, ma ‘come’ lo fanno? Ecco, già qui tutto si fa molto più complicato. In ‘letteratura’, cioè nella scienza politologica, i sistemi elettorali sono sostanzialmente due: il maggioritario (detto all’inglese perché inventato di sana piana nella democrazia più antica del mondo, la ex Inghilterra, oggi Gran Bretagna o Regno Unito) e il sistema proporzionale. Il secondo sistema – lo dice la parola stessa – trasforma, in modo più o meno proporzionale, i voti in seggi, ma con vari ‘correttivi’ per ‘attenuare’ la distorsione che è implicita in ogni sistema elettorale esistente. Il primo, invece, usa un metodo drastico quanto chiaro, ai fini del risultato finale: nei sistemi maggioritari chi ha più voti (ma, in realtà, chi conquista più seggi) vince le elezioni. Si chiama, con un termine mutuato dall’ippica inglese, principio del ‘the first past the post’, che anche se all’ingrosso vuol dire “il primo prende tutto”.

In buona sostanza, nei sistemi maggioritari, c’è un collegio per ogni seggio parlamentare da assegnare: il partito che prende anche solo un voto in più rispetto agli altri in quel collegio prende il seggio. Nei sistemi proporzionali, i seggi vengono assegnati in modo proporzionale ai voti ottenuti (un partito che prende il 5% dei voti, ottiene - ma solo a spanne! - il 5% dei seggi).

L’altro grosso problema è che i sistemi elettorali presentano anche un corposo e complicato mix dei due sistemi in una gradazione di ‘colori’ che può tendere più verso il sistema proporzionale o verso il sistema maggioritario. Inoltre, ma a un altro livello, sta la seconda distinzione, che però attiene alla forma di governo: esistono sistemi ‘parlamentari’ (l’Italia, la Spagna, la Germania, ma anche Israele, India, Australia), sistemi ‘semi-presidenziali’ (la Francia) e sistemi presidenziali (gli Usa e anche – anche se non ci crederete mai… - la Russia di Putin). Pochi, invece, sono rimasti i sistemi autoritari ‘puri’ (massimo esempio storico, la Cina comunista).

Sisitemi elettorali "all'italiana"

Ora, senza addentrarci in troppe subordinate (ma sia detto che un sistema elettorale ‘tende’ a favorire un sistema di governo di un tipo o altro) torniamo ai sistemi elettorali e parliamo di Italia. Da noi, come sempre abbiamo deciso di renderci la vita complicata. Infatti, nella mai troppo rimpianta ‘Prima Repubblica’ (1946-1992), il nostro Paese aveva un sistema elettorale facile, quasi banale. I voti erano attributi in modo proporzionale alle liste e, con uno sbarramento ‘indotto’ (cioè inscalfibile, intorno allo 0,8%, dovuto al recupero proporzionale dei resti in un collegio unico nazionale, detto sistema d’Hare), permetteva a tutti i partiti, anche i più piccoli, di essere rappresentati in Parlamento, dove si formavano le relative maggioranze di governo. Senza dire del fatto – tutto di natura politica – che, all’epoca, solo un partito (la Dc) governava, insieme ai suoi alleati minori (Pli-Pri-Psdi-Psi), mentre un altro stava sempre all’opposizione (il Pci), per un altro principio tutto ‘politico’ (si chiamava ‘conventio ad excludendum’ e voleva dire che il Pci non ‘poteva’ andare al governo mentre invece un altro partito ancora, l’Msi, neppure ci poteva andare in base a un’altra teoria, quella detta dell’arco costituzionale, che escludeva l’Msi mentre invece includeva il Pci) con la ‘Seconda Repubblica’ cambia tutto. Infatti, nel 1993, viene approvata una nuova legge che, sulla scorta dei referendum elettorali Segni (abolizione della preferenza unica, 1991, e abolizione della quota proporzionale del Senato, 1993), si chiamava ‘Mattarellum’ e con cui si è votato alle elezioni politiche del 1994, 1996 fino al 2001. Scritto dall’attuale capo dello Stato e, all’epoca, capogruppo del PPI, Sergio Mattarella, si trattava di un sistema elettorale a base, in buona sostanza, maggioritaria (al 75%), con il Paese diviso in tanti collegi uninominali, e un recupero proporzionale (25%) per le liste (e non staremo qui, però, ad annoiarvi con la storia e le polemiche sulle ‘liste civetta’ e lo ‘scorporo’!).

Funzionava anche bene, il Mattarellum, ma il centrodestra, nel 2005, fece votare, avendo la maggioranza, una nuova legge elettorale, il Calderolum (dal nome dell’allora capogruppo della Lega, Roberto Calderoli), meglio nota con il nomignolo di ‘Porcellum’, che venne dichiarata incostituzionale dalla Consulta, ma solo nel 2015. Ergo, con quella legge, il famigerato Porcellum, si votò alle Politiche del 2006, 2008 e fino al 2013. In pratica, si trattava di un sistema proporzionale, di base, che però attribuiva un premio molto alto, per ottenere la maggioranza, alla prima lista o coalizione che lo avessero raggiunto, senza stabilire alcun quorum, per cui venne ‘cassata’. Tutto sbagliato, tutto da rifare. Dopo l’unico caso al mondo di legge elettorale approvata dal Parlamento e mai messa in pratica (l’Italicum di Matteo Renzi, 2014), a sua volta dichiarata incostituzionale, stavolta in via ‘preventiva’, dalla Consulta, venne approvata la legge attuale, il Rosatellum, con cui voteremo.

Curiosità. Perché le leggi elettorali italiane hanno tutte la desinenza in ‘-ellum’ (un vero latinorum)? Perché il politologo Giovanni Sartori – fiorentino e dal carattere fumantino - volendo ‘parlar male’ del Mattarellum, lo bollò così, in modo spregiativo. La scarsa fantasia della Politica e pure dei media portarono ad affibbiare gli ‘-ellum’ anche a tutte le leggi seguenti, fino a oggi.

Il "quando&come" del Rosatellum

Ed eccoci, dunque, al Rosatellum, con cui si è già votato una volta (nel 2018) e si voterà pure il 25 settembre. Si chiama così perché, nella legislatura antecedente a questa che sta finendo (che è la XVIII, 2018-2022), alla fine della XVII legislatura (2013-2018), il relatore della nuova legge elettorale si chiamava (e si chiama…) Ettore Rosato. Oggi vicepresidente della Camera dei Deputati, ed esponente di punta di Iv, il partito di Renzi, all’epoca Rosato – quando il Pd aveva per segretario lo stesso Renzi – era il potente capogruppo dei dem a Montecitorio. La legge la scrisse lui, ergo porta il suo nome.

Sostanzialmente, il Pd di allora aveva introdotto tale sistema sperando non di ‘vincere’, ma di ‘perdere bene’ contro il centrodestra, ma le cose andarono molto diversamente. Il M5s s’impose a sorpresa e ‘tri-polarizzò’ la competizione elettorale, ‘sballando’ un sistema che era stato pensato per favorire una logica ‘bipolare’. Il Rosatellum, infatti, è un sistema ‘misto’: per tre quarti è un proporzionale (al 61%) e per un terzo è un maggioritario, basato sui collegi uninominali (al 37%), più un modesto 2% di proporzionale puro per i seggi dove votano gli italiani all’estero. Nel corso della legislatura sono stati diversi i tentativi per cambiarlo, ma sono rimasti nei cassetti della commissione Affari costituzionali. In pratica, si è cercato di dar vita a una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, con uno sbarramento al 5% (ecco perché si parlava di ‘sistema tedesco’), ma poi non se n’è fatto nulla.

Il drastico "taglio" del numero dei parlamentari e il voto ai 18enni

Ma è sopraggiunta, nel corso di questa legislatura, una novità, e non piccola. Infatti, nel 2017, i 5s hanno fortemente voluto, e poi ottenuto, una riforma costituzionale ‘epocale’. Il numero dei parlamentari è stato ridotto, per la prima volta dal secondo dopoguerra, e in modo drastico. Con la ‘riforma Fraccaro’, infatti, il numero dei parlamentari è stato decurtato di ben 345 membri: alla Camera da 630 deputati si passa a soli 400, mentre i senatori eletti scendono da 315 a 200. Anche gli eletti all’Estero sono calati (da 18 a 12 eletti, di cui 8 saranno deputati e solo 4 i senatori) ma poco male. Ma la vera novità del corposo taglio è che i collegi (circoscrizioni plurinominali proporzionali e collegi maggioritari uninominali) si sono, drasticamente, ridotti. In buona sostanza, diventa più difficile, per i partiti non solo piccoli, ma anche medi, eleggere i deputati e, soprattutto, i senatori, che in alcune regioni sono pochissimi.

Invece, il ‘correttivo’ sul superamento della base regionale per il Senato è rimasto lettera morta. Federico Fornaro, esperto di sistemi elettorali, e capogruppo di Articolo 1 a Montecitorio, aveva ottenuto il primo via libera alla sua proposta, ma poi la sua pdl costituzionale si è arenata. Oggi, spiega Fornaro che “in 5 Regioni (Friuli Venezia Giulia, Molise, Abruzzo, Basilicata e Umbria) ci sarà un unico grande collegio uninominale, con una forte compressione della rappresentanza”.

Politicamente, il taglio fu voluto dai 5Stelle, a cui non si oppose il Pd di Nicola Zingaretti in nome dell'alleanza giallo- rossa che reggeva il Conte II. Né c’è stato il tempo di varare, inoltre, finora, anche tutti i correttivi ritenuti indispensabili per bilanciare e riorganizzare gli equilibri interni alle Camere (i Regolamenti) ed evitare inoltre la compressione della rappresentanza, vista la distribuzione dei collegi, specie dentro il Senato.

Inoltre, sempre grazie a una legge costituzionale, per la prima volta il corpo elettorale di Camera e Senato sarà lo stesso. Per entrambi i rami del Parlamento potranno votare i cittadini dai 18 anni in su. La legge costituzionale n. 1/2021 ha parificato l’elettorato attivo a 18 anni. Prima, invece, per votare per il Senato (elettorato attivo) era necessario aver compiuto 25 anni (ma non è cambiata la regola sull’elettorato passivo: per diventare senatori l’età minima resta di 40 anni). E anche questa non è una novità da poco: infatti, in un sistema di bicameralismo ‘perfetto’, o ‘paritario’, come il nostro, in cui Camera e Senato fanno, sostanzialmente, le stesse identiche cose (e devono votare le leggi in ‘carta carbone’, cioè in modo identico), la differenza di età nell’elettorato ‘attivo’ produceva, oltre al sistema elettorale (che è e resta diverso), effetti difformi tra una Camera e l’altra (maggioranze diverse). Morale, quasi quattro milioni di under 25, per la prima volta, oggi voteranno anche per il Senato e non solo, come è sempre stato, per la Camera.

Come funziona il Rosatellum (almeno a grandi linee...)

Ma come funziona il Rosatellum? Quali sono i ‘segreti’ della legge elettorale con cui si voterà il prossimo 25 settembre? Si tratta di un mix (bilanciato per alcuni, sbilanciato per altri…), tra i due sistemi: infatti, assegna circa un terzo dei seggi con metodo maggioritario e i restanti due terzi con il proporzionale. Pertanto, 147 deputati e 74 senatori saranno eletti in altrettanti collegi con sistema maggioritario (vince chi prende più voti), mentre i restanti 245 deputati e 122 senatori saranno eletti con un sistema proporzionale. Deputati e senatori che, sommati quelli all’Estero (8 e 4) diventano, rispettivamente, 253 e 126. E, dato che “la somma fa il totale”, come diceva Totò, la somma di 147 + 253 fa 400 (deputati), mentre la somma di 74 + 126 fa 200 (senatori), cui vanno aggiunti i 6 senatori attualmente a vita. Ergo, la maggioranza assoluta delle due Camere è fissata a 201 deputati (è il quorum del plenum…) mentre quella del Senato è diversa, cioè di 104, perché bisogna tener conto, appunto, degli a vita.

Politicamente, invece, il sistema elettorale rende indispensabile coalizzarsi, se si vogliono vincere i seggi, o collegi, della parte uninominale e che, spesso, risultano decisivi per la vittoria finale. Diversi costituzionalisti avvertono sul pericolo di un ‘sovradimensionamento’ della coalizione che vince: una coalizione potrebbe ‘sfondare’ il tetto del 48-49% dei voti e arrivare al 62-65% in seggi, il che vuol dire avere la maggioranza dei due terzi per cambiar la Costituzione a proprio piacimento.Il centrosinistra ritiene questo ‘un pericolo’, ma il costituzionalista dem, Stefano Ceccanti precisa: “Non ci sono risultati ovvi, dipende dall'offerta politica: il sistema non è deterministico”.

Certo è che la legge elettorale produce due esiti. Il primo è che nei collegi uninominali - in cui ogni partito o coalizione può presentare un solo candidato –è più conveniente presentarsi sotto forma di grande forza politica così da concentrare più voti su di sé: soprattutto per il centrosinistra, presentarsi divisi significa ‘consegnare’ i seggi al centrodestra. Il secondo è che, al contrario dei risultati del 2018, quando i poli usciti vincenti erano due, il meccanismo maggioritario fa sì che dopo il voto dovrebbe emergere un vincitore in modo chiaro e stabile. Perché se è vero che, nel 2018, vi è stata una ‘tripolarizzazione’, grazie al boom storico del M5s, oggi non ci sarà più.

Tutti i dubbi sul Rosatellum: risponde il costituzionalista

Prendiamo, ora, una serie di termini che, ormai, da settimane riecheggiano nel dibattito politico. “Collegi blindati” o “sicuri” (che esistono). “Diritto di tribuna” (che, invece, non esiste). Scheda unica (quella c’è). Doppia scheda (nisba). Candidature “plurime” (ci sono eccome, fino a 5). “Voto di preferenza” (non c’è, rassegnatevi). “Soglie di sbarramento” (ci sono, ma solo per la lista e non, o solo formalmente, per le coalizioni). Collegi maggioritari uninominali e collegi plurinominali proporzionali (ci sono entrambi). La confusione, e pure il mal di testa, esplodono. Dunque, proprio grazie all’aiuto, prezioso, di un provetto costituzionalista, nonché deputato del Pd, Stefano Ceccanti, proviamo a far luce sugli aspetti conosciuti e meno conosciuti della legge.

Due schede. Una alla Camera e una al Senato.

Innanzitutto, all’atto dell’ingresso ai seggi, ogni elettore (cioè ogni cittadino dotato della pienezza dei diritti civili e politici e, ovviamente, al netto di quelli che ‘restano a casa’, cioè gli astenuti) riceverà due schede distinte: una per il Senato e una per la Camera. Ma il meccanismo di scelta è sostanzialmente identico per i due rami del Parlamento. Sulla scheda troveremo per ogni coalizione (o lista singola, se non è in coalizione) un candidato al collegio uninominale e, accanto a ogni simbolo, una lista ‘corta’ – e, anche, ‘bloccata’ - di candidati nella parte proporzionale.

Il voto, in realtà, è semplice: basta un segno su un simbolo della lista o sul nome del candidato dell’uninominale. Nel primo caso, il voto automaticamente sarà esteso anche al candidato dell’uninominale collegato alla sua lista. Invece, se si mette la croce su uno di questi ultimi, il voto automaticamente, si ‘spalma’, proporzionalmente, anche sui partiti della coalizione. Glossa di Ceccanti: “in ogni collegio uninominale è eletto il candidato con la maggioranza relativa dei voti” in base alla logica del ‘primo prende tutto’.

Il voto disgiunto? La desistenza? Non si può!

Non è possibile scegliere, indicare, ergo votare, un candidato all’uninominale che non è collegato alla lista scelta per il proporzionale. In pratica, è vietato quello che, invece, si usa alle comunali (ma solo per i comuni sopra i 15 mila abitanti) e si usava col Mattarellum: il “voto disgiunto”.

Un’altra cosa che non si può fare è la cosiddetta “desistenza”. La legge elettorale non lo permette. Proprio la desistenza fu, però, una delle chiavi della vittoria del centrosinistra nel 1996. In alcuni collegi, dove era presente l’Ulivo, Rifondazione comunista non si presentò, evitando quindi di togliere voti al candidato dell’Ulivo di Prodi. Spiega Ceccanti: “La coalizione deve essere la stessa su tutto il territorio nazionale. Anche in caso di coalizione, infatti, ogni partito presenta un proprio programma distinto e dichiara chi è il proprio capo politico. La coalizione, quindi, non ha un simbolo, un programma o un leader in comune, ma solo candidati uninominali comuni. Dove si presentano candidati plurinominali si presentano anche quelli uninominali e viceversa. Per questo non sono realizzabili le desistenze”.

Le soglie di sbarramento. Vere e pure ‘finte’…

Ne esistono due, di sbarramenti percentuali. Per la parte proporzionale, i seggi sono spartiti tra le liste che ottengono almeno il 3%. “Ogni lista infatti — spiega Ceccanti — ha uno sbarramento nazionale del 3%, mentre le coalizioni lo hanno al 10%. I partiti che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% riversano i loro voti, proporzionalmente, alle altre liste della stessa coalizione che hanno superato il 3%. I voti delle liste che rimangono sotto l’1% vanno invece completamente persi”: vengono ‘buttati’, cioè non servono per il calcolo dei seggi da dare.

Per questo, i partiti maggiori danno ai partiti più piccoli un pugno di collegi uninominali sicuri, assicurando loro quello che, erroneamente, viene detto “diritto di tribuna” ma non lo fanno gratis. La loro ‘ricompensa’ sta nei voti proporzionali che arrivano dalle liste che superano l’1% senza arrivare alla soglia del 3%. Le quali liste ‘non’ eleggono nessuno, ma contribuiscono ad eleggere in quota parte, i candidati dei partiti più grandi. In teoria, ci sarebbe anche un’altra soglia di sbarramento, quella al 10% per le coalizioni, ma è scritta solo ‘sulla carta’. Infatti, un partito o lista che non raggiunge il 10% dei voti è pur sempre composta da una o più liste che hanno raggiunto e superato il 3%, quindi, almeno la lista principale (superando lo sbarramento del 3%) si avvantaggia – come coalizione – del contributo delle liste tra l’1% e il 3%. Ove nessuno supera il 3% il problema è risolto alla radice: nessuno passa lo sbarramento, né la lista né la coalizione.

Le pluricandidature, fino a 5, e un solo collegio

Ci si può candidare, alle elezioni, in un solo collegio uninominale e, al massimo, in cinque collegi proporzionali, che sono tanti. Ma non è possibile “optare”, ovvero scegliere dove far scattare il proprio seggio e determinare quindi il parlamentare subentrante. Se si vince il collegio uninominale il seggio scatta automaticamente, se si viene eletti nel proporzionale si viene eletti – quasi sempre, ma quasi - dove la lista è andata peggio, dove cioè ha fatto il ‘quoziente’ peggiore. Questo sarebbe, e si chiama, ‘effetto flipper’, ma data la pazienza che avete portato fin qui, e dato il gran mal di testa che di certo già vi è venuto, ve lo spieghiamo un’altra volta, subito dopo il voto.

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