Cancellata la deroga ai super stipendi degli alti papaveri, resta il "giallo" sulla manina che l’aveva messa
Dopo l'intervento del presidente della Repubblica, un susseguirsi di "scusateci, ci siamo sbagliati" e la commissione Bilancio approva la soppressione dell'emendamento che abbatteva il limite di 240 mila euro per alti dirigenti dello Stato. Ma come è andata veramente? La ricostruzione
E’ finita come doveva finire. Un bel "scusateci, ci siamo sbagliati" e non se ne parla più (forse). La commissione Bilancio della Camera ha approvato la soppressione della deroga al tetto degli stipendi per i manager pubblici, norma introdotta – nottetempo, pensando che nessuno se ne accorgesse - durante l'esame del decreto Aiuti bis al Senato. La Commissione ha votato, dopo una rapida conversione a U rispetto al Senato, e approvato l'emendamento del governo Draghi - che, dopo averci pensato un giorno interno, ma con un rapido dietrofront, ha chiesto al Parlamento di cancellarla con un emendamento.
Senza dire che si è scomodato pure il Presidente della Repubblica esprimendo tutte le sue “perplessità” sul testo, cioè per dire che ‘no, quella norma non si può guardare’ e, dunque, andava soppressa, con un intervento che definire ‘a gamba tesa’ è poco, ma ci stava tutto. E così, sopprimendo la modifica al testo, ora ripristinato nella norma originaria, quella che il tetto agli stipendi non l’aboliva ma lo confermava – un giro di valzer improvviso e vorticoso, dato che, in prima istanza, il governo, nella persona del Mef, non si era affatto opposto, anzi… - il ‘tetto’ agli stipendi dei manager pubblici è salvo. Un tetto cospicuo, peraltro: ben 250 mila euro. Una famiglia italiana media non li guadagna non in un anno, come la norma prevede, ma in cinque.
Solo che, ora, il dl Aiuti slitta di una settimana
Solo che, ora, con il via libera all'emendamento soppressivo dell'articolo 41 bis del decreto Aiuti bis, nel quale era contenuta la deroga al tetto di 240mila euro per gli stipendi dei dirigenti e manager pubblici, sarà necessaria una terza ed ultima ‘lettura’ per la conversione definitiva in legge del provvedimento. Dunque, dopo l'ok di Montecitorio, atteso entro oggi, il decreto tornerà – a questo punto non prima della prossima settimana, però - all'esame del Senato per il voto definitivo e cioè per far diventare legge il dl Aiuti, l’ultimo del governo Draghi, atteso da mesi da famiglie e imprese, e che vale ben 17 miliardi. Eh sì perché, come si sa, vigendo il bicameralismo perfetto, in Italia, ogni legge deve essere approvata in copia conforme, o carbone, da entrambe le Camere. Fin quando ciò non accade, il provvedimento non ‘esce’ dalle aule parlamentari, ergo non può diventare legge.
Scoppia, immediatamente, la polemica politica
Il ‘dietrofront’ o ‘contr’ordine, compagni!’ è, ovviamente, assai repentino e sa di falso lontano un miglioso. La norma sulla deroga al tetto degli stipendi dei manager pubblici, inserita nel decreto Aiuti bis durante l'esame del provvedimento al Senato, scompare cioè proprio come era apparsa, ma la modifica diventa subito il centro di un'aspra polemica: Pd, Iv e 5 Stelle hanno infatti puntato il dito contro il governo – governo che, fino a ieri, appoggiavano – ‘reo’, a loro dire, di aver contribuito all'eliminazione del tetto di 240mila euro attraverso la riformulazione di un emendamento targato Forza Italia. Insomma, i partiti più ‘sensibili’ al tema della lotta alla Casta.
La contrarietà di palazzo Chigi (e del Colle)
Palazzo Chigi, al contrario, ha subito tenuto a precisare che la modifica incriminata era stata frutto di un'iniziativa parlamentare e che non aveva, minimamente, tra l'altro, incassato il favore dello stesso premier Mario Draghi. Non solo. Il Capo dello Stato in persona avrebbe espresso le sue critiche sulla norma. Il presidente Sergio Mattarella avrebbe espresso - in una conversazione con il premier che viene tosto fatta trapelare, alle agenzie – “forti perplessità” su una “norma inopportuna, tanto più in un momento in cui gli italiani sono alle prese con gli aumenti dovuti alla crisi energetica”. Tra Chigi e Colle, insomma, per la norma è un de profundis. E così, il governo interviene per ripristinare la norma originaria, cioè il tetto di 240mila euro valido per tutti i dirigenti e manager della Pubblica amministrazione (l'emendamento approvato introduceva una deroga a tale tetto).
L'irritazione di Mario Draghi con il Tesoro e con il ministero dei Rapporti con il Parlamento, cioè con il ministro Federico D’Incà, è assai palese. Il premier non era informato – pare della decisione del ministero dell'Economia di riscrivere - e di fatto cancellare per alcune categorie - il tetto. E non è d'accordo con chi ha riscritto il testo, tanto più in una fase così delicata per il Paese, che si appresta ad affrontare mesi complicati a causa soprattutto della crisi energetica. Amen.
I beneficiari (in prima battuta) della deroga: oltre 240 mila euri annui per ‘poveri cristi’
Ma chi erano i ‘boiardi di Stato’ (in realtà tutti membri, altolocati, della PA, specie militari) destinatari della ‘felice’ rottura del tetto? Eccoli. Vanno dal Capo della polizia – Direttore generale della pubblica sicurezza, al Comandante generale dell'Arma dei carabinieri, al Comandante generale della Guardia di finanza, al Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, al Capo di stato maggiore della Difesa, ai Capi di stato maggiore di Forza armata, al Comandante del comando operativo di vertice interforze, al Comandante generale del Corpo delle capitanerie di porto, ai Capi dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri, ai Capi dipartimento dei Ministeri, al Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri e ai Segretari generali dei Ministeri. Pochi nomi, per carità, ma insomma mica sono pagati poco, ecco. E, soprattutto, sono tutti veri ‘boiardi di Stato’ abituati a lavorare pochissimo, ma in compenso a guadagnare, appunto, molto.
La norma stabilisce che venga riconosciuto, su proposta del Mef "un trattamento economico accessorio per ciascuno di importo determinato nel limite massimo delle disponibilità del fondo" per le esigenze indifferibili (che ha un dotazione annua di 25 milioni di euro). Un importo che può essere stabilito anche in deroga al limite di legge per il personale della PA pari alla retribuzione del primo presidente di Corte di Cassazione (240.000 euro annui al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali). Che dire? Una boccata d’ossigeno per ‘poveri cristi’.
Ma la ‘pacchia’ finisce in mezza giornata
Pacchia finita, dunque, e pure in mezza giornata. Palazzo Chigi annuncia la presentazione di un emendamento soppressivo dell'articolo contenuto nel decreto Aiuti bis, anche se, appunto, la modifica al testo licenziato ieri dal Senato comporta un nuovo passaggio del provvedimento a palazzo Madama per la conversione definitiva in legge. Il decreto era atteso oggi in Aula della Camera per quello che, inizialmente, doveva essere l'ok finale. Ora, invece, se tutti i gruppi parlamentari dovessero approvare – e non si vede come possano non farlo - l'emendamento soppressivo del governo, sarebbe necessaria una terza ed ultima lettura, che si ipotizza possa avvenire all'inizio della prossima settimana. Il che, però, vorrebbe dire allungare i suoi tempi.
Ma ci sarebbe anche la strada più impervia di un ordine del giorno al prossimo dl Aiuti ter
Si profila anche un'altra strada, ipotizzata dallo stesso governo nella sua nota di ieri: un ordine del giorno, già preannunciato ieri dal Pd, da presentare al decreto Aiuti ter, che il Cdm si appresta a varare tra oggi e domani (comunque entro la settimana), dopo aver ottenuto il via libera anche di Montecitorio all'aggiustamento di bilancio (quest’ultimo si vota, è bene ricordarlo, a maggioranza assoluta), necessario per liberare nuove risorse da destinare a famiglie e imprese contro il caro bollette.
Dunque, fa sapere palazzo Chigi, il governo chiederà di votare l'emendamento soppressivo salvo che le forze politiche all'unanimità non decidano di approvare l'ordine del giorno che dispone la soppressione della deroga (al tetto degli stipendi) in altro testo, il decreto Aiuti ter.
La differenza tra le due soluzioni, che appaiono solo sofismi degni di ‘dottor Azzeccagarbugli’, tuttavia, non è irrilevante: approvando l'emendamento soppressivo nel decreto Aiuti bis, la nuova modifica avrebbe subito effetto, ripristinando la norma originaria. La strada dell'ordine del giorno, invece, presuppone un intervento successivo in un altro provvedimento, in quanto l'odg è un ‘semplice’ impegno del Parlamento al governo, ma senza effetti normativi immediati e che, soprattutto, può essere facilmente disatteso. Insomma, meglio la prima.
Ognuno dei leader e partiti attacca l’altro
Fatto sta che all'indomani del via libera alla deroga al tetto degli stipendi dei manager pubblici, tutti i partiti si affrettano a garantire – anzi, a spergiurare - che si tornerà alla norma avviata molti anni fa, sotto il governo Monti, e poi ampliata durante il governo Renzi, il quale, ovviamente, subito si prende i meriti (ma passati).
Prende le distanze Matteo Salvini, rivendicando che la Lega non ha votato l'emendamento in questione al Senato. Per il leader di Azione Carlo Calenda la soluzione va trovata nel prossimo decreto Aiuti ter. La modifica “è uno schiaffo ai più deboli, la cambieremo", assicura il leader dem Enrico Letta, in versione ‘cheguevarista’. La norma approvata ieri viene definita "vergognosa" da Giuseppe Conte. Intanto tutti, dal Pd a Iv fino a M5s e Lega, strepitano, annunciano e presentano emendamenti soppressivi alla Camera.
Scoppia, a latere, l’ennesima polemica politica: protagonisti il segretario del Pd e il leader M5s. Su Twitter Letta esprime soddisfazione per l'emendamento soppressivo del governo. A stretto giro replica Conte: "Eppure l'avete votato, Enrico. Un bel tacer non fu mai scritto", cinguetta. Crede di citare, addirittura, almeno lui crede sia così, Dante Alighieri, ma trattasi di pura leggenda, è di un oscuro poeta del Seicento, Iacopo Baoder, divenuto proverbio popolare, che vuol dire “la bellezza del saper tacere al momento opportuno non è mai stata lodata a sufficienza”.
Tutto bene quel che finisce bene? Mica tanto
Tutto bene quel che finisce bene, ma ci sono dovuti mettere, di buzzo buono, nell’ordine, Draghi, Mattarella e diversi leader di partito. In mattinata, il blitz nelle Commissioni riunione in Senato aveva già fatto salire sulle barricate i sindacati, quelli che rappresentano il Lavoro. Quell’emendamento “lo hanno votato tutti” e “questo è indegno contro lavoratori che hanno mandato avanti il Paese”, ha commentato il segretario della Cgil Maurizio Landini, dal palco dell’assemblea dei delegati a Bologna. “Chi ha un reddito di 240 mila euro – ricorda Landini – non ha problema di pagare affitto, pagare le bollette, mentre il decreto aiuti dovrebbe aiutare chi non ce la fa ad arrivare a fine mese”.
Ma quale la ‘manina’ che ha scritto la deroga?
In ogni caso, tutto questo accade, mentre rimane il giallo sulle origini del provvedimento. “C’è stato un guaio, non abbiamo capito per responsabilità di chi. Un guaio assoluto, pieno. A fare un po’ di luce sui passaggi è il firmatario dell’emendamento, il senatore Marco Perosino di Forza Italia. “Non è chiaro cosa sia successo al mio emendamento che ha fatto il giro dei ministeri e poi è arrivata la riformulazione nelle commissioni riunite…”, dice il senatore FI. Tutto nasce, dunque, dall’ emendamento del senatore forzista Perosino al decreto Aiuti bis, nato per contrastare il caro bollette, approvato dalle commissioni Bilancio e Finanze del Senato.
Ma il testo originario prevedeva la deroga al tetto sugli stipendi solo per le forze di polizia, carabinieri e amministrazione penitenziaria. Poi però è arrivata la novità. Il ministero dell’Economia, guidato da Daniele Franco, lo ha inserito tra gli emendamenti da “riformulare” e, nella riformulazione, sono state inserite tutte le altre figure ministeriali: cioè i capi dipartimento dei ministeri, il segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri e i segretari generali dei ministeri.
Diventa pertanto difficile da decifrare quel “disappunto” fatto filtrare da Palazzo Chigi che, poche ore dopo l’approvazione in Aula, ha relegato la deroga a una “dinamica squisitamente parlamentare” e di intesa tra i partiti, provocando la reazione e le critiche di quasi tutti i soggetti politici, anche di Partito democratico e Italia viva, che in Aula (insieme a Forza Italia) hanno votato a favore. Astenuti Fratelli d’Italia, Movimento 5 stelle e Lega.
Renzi mette sotto accusa il Mef, il Pd si difende
Ma è Matteo Renzi, via Facebook a rivelare uno scenario diverso: "Quello è un tetto che avevo messo io, oggi il governo ha fatto questa riformulazione e non avevamo alternativa che votarlo per evitare che saltasse tutto e saltassero 17 miliardi di aiuti alle famiglie", cioè quanti ne contiene proprio il dl Aiuti, atteso ormai da mesi.
Ma allora come è andata? L’emendamento sarebbe arrivato dal ministero dell’Economia e delle Finanze intorno a mezzogiorno. Insieme a tutto il pacchetto, che aveva avuto il parere favorevole del governo. Non segnalato, ma c’è. Stando agli off the record, nella fretta di chiudere, molti non se ne sarebbero neanche accorti. Il ministero dell’Economia ribatte che avrebbe, però, fornito "solo un contributo tecnico sulle coperture" e si tratterebbe comunque "di un emendamento parlamentare la cui attuazione necessita un provvedimento successivo".
Il Pd prova a metterci una pezza, ma fa acqua
Ovviamente, il Pd tenta di metterci una pezza. Le capogruppo Simona Malpezzi e Debora Serracchiani annunciano: «Non condividiamo in alcun modo l’emendamento che elimina il tetto dei 240mila euro agli stipendi di una parte della dirigenza apicale della pubblica amministrazione». Il guaio è che l’abruzzese Luciano D’Alfonso, presidente alla commissione Bilancio della Camera, se la prende con il povero Petrosino, che il testo lo ha presentato e non lo ha ritirato “perché, quando è arrivato, non era più possibile fare modifiche” (falso, infatti poi si sono fatte): “Non c’era più tempo poiché ogni cambiamento deve essere validato dal governo. Questa poi era una riconferma. Il Parlamento verifica quando ci sono cambiamenti della parte originaria, ma qui c’era solo un allargamento della platea”. Poi D’Alfonso scarica le colpe sul Mef, ma si contraddice, e difende la deroga: “Serviva attenzione al momento, anche per un provvedimento come questo che rende libero chi non deve essere sottoposto a nessuna pressione”.
La ‘gentilezza’ di Petrosino, oggi disperato
E il povero Petrosino? E’, ovviamente, disperato. Con il Corriere della Sera implora, chiede pietà: "Non chiamatelo emendamento Perosino. Io non c’entro nulla. Non è mio". E ancora: "Io ne avevo firmato uno, peraltro non era una mia proposta, ma lo avevo sottoscritto per gentilezza" (sic). Verso chi, la ‘gentilezza’? "Bisognava presentarlo con un nome e siccome nella formulazione originaria riguardava solo l’equiparazione dei vertici delle forze di polizia al comandante generale della Guardia di finanza e quindi riguardava 3 o 4 persone l’ho firmato. Ma poi l’ho ritirato. Morto. Non c’era più". E dopo? "E dopo è riapparso misteriosamente (sic) tra gli emendamenti riformulati a firma commissione riunite. Ma nessuno mi ha chiamato dal governo o dalla commissione, è passato in maniera subdola".
Petrosino, dunque, come le tre scimmiette della favoletta, non ne sapeva nulla: "Nessuno se n’è accorto perché nell’elenco degli emendamenti riformulati segnalati non c’era. Io ho assistito alla discussione generale che era sul 110%, e poi sono dovuto tornare a Priocca perché avevo impegni elettorali. Ma non si fa così". Cosa? "Se mi fosse stato chiesto un parere sull’allargamento sarebbe stato negativo. Non è nelle mie idee, anche se qualcuno mi ha chiamato per dirmi che è giusto pagare anche gli alti vertici dello Stato altrimenti i più bravi se ne vanno…". “Intanto sono io a prendermi gli insulti", chiude, disperato, il povero Petrosino, esposto, ormai, e da due giorni, al pubblico ludibrio ed esecrazione. Come pure, ovviamente, un’intera classe politica che, in questi giorni, cerca voti per le elezioni.