“Campa cavallo!”. Per avere il nuovo governo in carica ci vorrà ancora un mese: come sarà e chi lo guiderà
Non tutto sarà deciso dai soli risultati elettorali, verrà influenzato anche altri fattori. Difficile possa avere pieni poteri prima di novembre
Per dirla con un noto proverbio, “campa cavallo!” e, per dirla in altro modo, “ci vuole il tempo che ci vuole”... Per sapere il nome del premier e, ovviamente, i nomi dei futuri ministri del futuro governo che erediterà la ‘campanella’, passerà, dalla data del voto, un mese buono buono. In pratica, dal 25 settembre, si arriva a fine ottobre.
E questo alla bella faccia di chi – italiani che ‘non arrivano a fine mese’, rincari delle bollette, impegni interni, europei e internazionali, guerre più o meno in corso, devastazioni climatiche, cavallette, invasione dei marziani, etc. etc. etc. – proprio non si capacita del fatto che i ‘tempi’ della Democrazia sono assai lunghi e complessi.
Nel nostro Paese, poi, lo sono sempre di più. Ma vediamo ora tutte le ‘tappe’ di avvicinamento, una vera e propria marcialonga, che ci separerà dalla data del voto fino alla nascita del governo che prenderà in consegna il testimone da Draghi.
La data del voto e la proclamazione degli eletti
Il 25 settembre, come ormai sanno anche i sassi, si vota per le elezioni politiche (anticipate). I risultati, cioè l’esito del voto, si saprà la notte stessa (domenica 25 settembre), ma per sapere i nomi di tutti gli eletti, a causa del meccanismo ‘infernale’ che deriva dalla legge elettorale vigente, il Rosatellum, bisognerà attendere che passi quasi l’intero giorno di lunedì 26 settembre.
A causa del cd. ‘effetto flipper’ del Rosatellum, alcuni nomi che si sentono ‘sicuri’, perché sono stati candidati in posizioni ritenute ‘eleggibili’, potrebbero ricevere amare sorprese last minute, specie se candidati in partiti e/o coalizioni date, ad oggi, ‘perdenti’, cioè non presenti nelle fila della probabile futura maggioranza di governo, quella di centrodestra. E’ finita qui? Nel senso che, a quel punto, si saprà chi guiderà il governo e come sarà composto? No. Infatti, tra il giorno e delle elezioni devono passare, per legge, 20 giorni ed ecco che, dunque, l’insediamento delle nuove Camere, che è stato, peraltro, già fissato, si terrà solo il 13 ottobre. Il ‘fermo biologico’ serve a sbrigare varie formalità tecniche e vizi di forma, tra i quali possibili eletti ed elezioni ‘invalide’.
La prima riunione delle nuove Camere e la ‘costituzione’ dei suoi organi
Allora, sarà il 13 ottobre, la data fatidica per sapere se l’Italia avrà il primo premier donna nella sua lunga storia? Neppure. Quel giorno, infatti, le nuove Camere si riuniscono e danno luogo alla prima seduta della nuova legislatura, che sarà la XIX, dopo l’attuale, che è la XVIII.
Il vicepresidente più anziano (al Senato) e il più giovane (alla Camera) dichiarano formalmente aperta la nuova legislatura (la XIX, appunto). Si procederà alla “convalida degli eletti” e, poi, alla formazione dei gruppi parlamentari. Solo quando questi ultimi saranno formalmente costituiti, si potrà procedere all’elezione dei due nuovi presidenti dei due rami del Parlamento.
Seguirà, poi, l’elezione di tutti gli altri organi, i cd. ‘interna corporis’ delle due Camere: vicepresidenti d’aula (4), questori (3), segretari d’aula (9, come minimo) e via di questo passo. In buona sostanza, pur volendo correre parecchio, dal 13 ottobre, primo giorno ‘di scuola’ per la nuova massa di parlamentari, alla formazione di tutti gli organismi della Camera di giorni ne passano, come minimo, un altro paio, o di più. Dipende dalla maggioranza politica che è nata dalle urne, quanto è stabile, o litigiosa, e se c’è.
Il toto-nomi del futuro presidente del Senato
Ma chi saranno i prossimi presidenti delle Camere che saranno eletti dal nuovo Parlamento? Per ora, nel centrodestra, regna il buio assoluto. “E’ troppo presto” dice un big di FdI. “Non ci abbiamo ancora messo la testa” dice un leghista. “Non sappiamo neppure se avremo i numeri utili a governare”, geme un azzurro, “figurarsi se possiamo decidere già ora i nomi dei Presidenti”.
Insomma, per un po’ non se ne parla, anche se, per vari motivi, specie politici, i nomi girano. Per il Senato si fa quello del solito Marcello Pera (filosofo, cattolico, già presidente del Senato), che però è anche in predicato di fare il ministro alle Riforme istituzionali (la Meloni lo vuole là).
Ma anche quello di Giulio Tremonti, specie se ritenesse un ‘affronto’ la proposta, che pure certo gli arriverà, di un dicastero ‘minore’ nel governo Meloni, dato che lui punta al bersaglio grosso (il Mef), cattedra che però difficilmente otterrà. Non foss’altro perché in Ue come Tremonti ha gestito la crisi monetaria e speculativa del 2008 se lo ricordano bene e non lo vogliono veder dipinto.
Sempre per il Senato, ma cambiando di partito, si fa il nome di Matteo Salvini. Se le elezioni dovessero andare molto male e il risultato elettorale della Lega fosse molto basso (10%), il Capitano finirebbe sotto processo e perderebbe, in poco tempo, leadership del partito e la speranza di andare al governo, all’obiettivo da lui ‘puntato’: tornare a fare il ministro degli Interni. Ma data l’aperta ostilità del Colle (e pure della Meloni), si dubita che ci riesca. Potrebbe ripiegare sul Senato o ‘fare largo’ a un suo fidatissimo come Roberto Calderoli, indimenticato autore del Porcellum, che, a differenza sua, è un vero ‘mago’ di norme, codicilli, regolamenti. Insomma, il mestiere lo sa.
Dentro Forza Italia, ribadito che Silvio Berlusconi non ha alcuna voglia di ‘annoiarsi’, con norme, regolamenti e pratiche assai faticose, e complicate, oltre che noiose, ci fa un pensiero, ovviamente, la presidente uscente, Maria Elisabetta Alberti Casellati e pure Annamaria Bernini, che invece è capogruppo uscente di FI.
Il toto-nomi del futuro presidente alla Camera
Invece, alla Camera, è davvero buio pesto. Come al Senato, e forse di più, il peso specifico e il numero degli eletti dei vari partiti/coalizioni la farà da padrone, nelle trattative per l’alta carica. Dunque, FdI, il partito oggi favorito, è in pole. Fabio Rampelli, oggi vicepresidente d’aula, ci tiene, e pure parecchio, ma anche Lollobrigida chiede un ‘avanzamento’ mentre la Meloni vuole puntare sulla donna, presidente proprio come lei. Difficilmente Lega e FI, nello spoil system che arriverà, possono vantare su grossi calibri (i big), in più conteranno pochissimo, stando ai sondaggi. Quindi è difficile ottengano lo scranno più alto della Camera dei Deputati, pur se già vi puntano.
Ergo, o FdI si terrà pure la presidenza dell’aula (con Rampelli e/o altri), mollando alla Lega o FI il Senato, o farà il beau geste – specie se ha, come ha, l’obiettivo di una riforma, in senso presidenziale, della Costituzione repubblicana - oppure la concederà ‘graziosamente’ a un big di area centrista (magari una donna, tipo la Bonetti, o la Carfagna o la Gelmini) per ‘accattarsi’ i voti dei terzopolisti in vista delle future riforme. Stessa scelta che, volendo, la Meloni potrebbe fare al Senato, con un colpo d’ala e d’ingegno, dandone la presidenza a Renzi, Calenda, Bonino.
Difficile, invece, se non impossibile, che il nome del presidente della Camera o del Senato sia del Pd che, le prossime elezioni, le perderà assai.
Ma risolto questo, non piccolo, problema – cioè l’elezione dei gruppi parlamentari, dei presidenti e di tutti gli ‘organismi’ che devono ‘accendere’ le macchine del Parlamento, Camera e Senato, il percorso è appena iniziato e resta ancora tortuoso. E siamo arrivati ‘appena appena’ a metà ottobre...
Un rito antico: il “passaggio della campanella”
Ne deve, cioè, ancora passare di acqua, sotto i ponti, prima che si tenga la famosa consegna cerimonia della ‘campanella’ con cui il presidente del Consiglio dà inizio, per rito antico, alla riunione del Consiglio dei Ministri. Celebre e passata alla Storia la volta in cui, correva l’anno 2015, un gelido e irato Enrico Letta la consegnò nelle mani di Matteo Renzi che, tutto giulivo, lo aveva esautorato con un vero ‘colpo di Palazzo’. Ben più ‘normali’ e sereni altri passaggi, persino, per dire, quelli tra Romano Prodi e Berlusconi.
Solo che, affinché quel ‘rito’ antico e solenne si materializzi “ci vuole il tempo che ci vuole”…. La cerimonia ufficiale che segna il cambio di passo (e di governo, non certo di ‘regime’: non entreremo nell’anno I della nuova era Meloni, manco si trattasse del Duce, a essere sinceri), è anche un abituale rito di passaggio e consegne tra il premier uscente e il premier entrante.
Si fa così, da tempo immemore – per capirsi, dal Regno di Savoia o sabaudo, e, poi, regno d’Italia, solo che allora si giurava, appunto, nelle mani del Re, a maggior ragione nello Stato repubblicano quando si giura, ma prima del rito della campanella, assicurando di difendere e applicare la Costituzione “con lealtà e onore” - perché vuoti di potere non sono mai ammessi.
E si chiama, nelle monarchie come repubbliche, “continuità dello Stato”: va sempre garantita, dentro e fuori le stanze di palazzo Chigi. In questo caso, il ‘rito di passaggio’, dall’attuale premier, in carica “per il disbrigo degli affari correnti” (vuol dire, in buona sostanza, che non puoi fare praticamente nulla perché hai perso il potere di porre la questione di fiducia e, dunque, di ‘vincolare’ le scelte del Parlamento alle tue…), Mario Draghi, alla nuova premier – a occhio, si presume, Giorgia Meloni - bisognerà attendere – checché ne pensino o sperino gli italiani – un considerevole lasso di tempo. In sostanza, dal giorno del voto, il 25 settembre, almeno un mese.
Le ‘consultazioni’ al Colle, ecco un altro rito, e pure ‘obbligatorio’
Prima, però, e qui se ne va un’altra settimana, sana sana, diciamo da metà ottobre a fine mese, bisogna tenere le formali, formalissime, ‘consultazioni’ del presidente della Repubblica che, come si sa, le tiene ‘a casa sua’, al Quirinale prima con i presidenti delle due nuove Camere, dopo con i gruppi parlamentari (tutti: si parte dalle minoranze linguistiche e si sale, su su, dal gruppo politico più piccolo a quello più grande), senza dimenticare, per consuetudine e rispetto, degli ex presidenti della Repubblica, anche se, stavolta, con Giorgio Napolitano molto malato, ci si limiterà a una, e breve, telefonata di cortesia.
In buona sostanza, è solo il Capo dello Stato – nella persona di Sergio Mattarella, rieletto per il suo secondo mandato soltanto a gennaio 2022 – l’unico vertice delle Istituzioni, ‘deputato’, per Costituzione, ad affidare un incarico di governo a una personalità (politica in senso lato, infatti può anche benissimo non essere un parlamentare) e chiedergli la ‘cortesia’ di fare il suo ‘tentativo’. Sempre che, ovviamente, più gruppi parlamentari (alle consultazioni, i nuovi capigruppo vanno, è vero, accompagnati dai rispettivi leader di partito, ma per il Colle conta solo la loro, di indicazione) abbiano, in numero consistente, ‘indicato’ un premier ‘in pectore’.
Gli incarichi nel ‘ventaglio’ dei poteri del Presidente della Repubblica
Riassumendo, il Presidente della Repubblica, Costituzione (e pure prassi delle consultazioni) alla mano, decide lui, in scienza e in coscienza, a chi affidare l’incarico di formare il nuovo governo. Ovviamente, ‘preso atto’ dei risultati elettorali delle elezioni e, dunque, cercando, in modo pieno, ma non pedissequo, di rispettarli. L’incarico, come si sa, può essere ‘pieno’ – se il risultato delle elezioni non lascia adito a dubbi – o un ‘pre-incarico’ (modello Napolitano a Bersani nel 2013, una vera ‘sòla’ o ‘buggeratura’) o un incarico ‘esplorativo’ che, però, di solito viene affidato a uno dei presidenti delle Camere.
Un modo come un altro per ‘prendere tempo’, questo, specie se i risultati elettorali sono confusi, incerti e non hanno prodotto un quadro ‘chiaro’ (esempio: gli incarichi esplorativi a Casellati e, poi, a Fico nel 2018) e bisogna cercare di uscire dall’impasse per evitare la catastrofe finale, detta l’arma Fine di Mondo: il ricorso a nuove elezioni politiche a pochi mesi dalle precedenti.
Le ‘consultazioni’ intra-partiti...
Se, invece, tutto finisce bene, si passa alle consultazioni ‘intra-partitiche’ cioè tra le forze politiche che devono sorreggere il nuovo governo. E qui si rischia che passino diversi giorni, o persino settimane, o mesi (vedi: 2018), perché i partiti della maggioranza ‘non’ riescono a mettersi d’accordo tra di loro sui nomi dei ministri e sul peso dei relativi dicasteri spettanti.
O, anche, perché il Capo dello Stato esercita il suo ‘potere di veto’ sui nomi di alcuni ministri che, in alcuni dicasteri ritenuti, per prassi, ‘chiave’ e sensibili (Interni, Difesa, Esteri, Mef, Giustizia, sono di solito 5, ma ora pure la Salute), esercita il suo ‘potere di veto’ e, in pratica, dice: ‘questo sì, questo no’ (vedi alla voce: veto di Scalfaro su Previti alla Giustizia nel I governo Berlusconi, 1994, o veto di Mattarella a Savona al Mef, governo gialloverde 2018, etc. etc. etc.). Non a caso, il presidente del Consiglio incaricato accetta, sempre e comunque, l’incarico che gli viene ‘conferito’ con la formula “con riserva”.
Riserva che, poi, va a sciogliere in senso positivo (per lo più) o negativo (in alcuni casi) al Colle. Solo a questo punto, dopo lo scioglimento della riserva, si può ‘far festa’. Cioè fare il giuramento del premier e di tutti i suoi ministri, al Quirinale. Solo che, tra una ‘bagatella’ e l’altra (esempio: Meloni che propone dei nomi, Mattarella che pone i suoi veti, oppure, altro esempio, Meloni che, con Salvini e Berlusconi non si mette d’accordo sulla lista dei ministri e sul ‘peso’ che deve avere ogni partito della sua coalizione…), il tempo continua, inesorabile, a scorrere. E posson passare giorni, a farla breve, o settimane. O mesi.
A quel punto – con il governo già formato e che ha giurato nelle mani del Capo dello Stato, arriva finalmente la ‘prova del nove’, il voto di fiducia.
Il rapporto ‘fiduciario’ Parlamento&governo
In ogni caso, solo quando il governo ha ‘giurato’, sulla Costituzione e nelle mani del Presidente della Repubblica (premier e ministri, tutti insieme, segue classica foto di rito) con la solita, scenografica, cerimonia che si fa al Colle, il governo ‘entra in carica’ ma – piccolo particolare - non ha ancora ‘preso’ la fiducia delle Camere. Obbligatoria, la fiducia, perché il governo possa partire e operare davvero e sul serio, in quanto la nostra è una repubblica parlamentare e da qui non si scappa, almeno fino a quando non verrà ‘riformata’ – come pure il centrodestra vorrebbe – la nostra Costituzione.
Il rapporto è ‘fiduciario’, tra Parlamento e governo: simul stabunt, simul cadent, cioè senza l’uno non c’è l’altro. O meglio trattasi di governo ‘sfiduciato’, privo di una maggioranza, in carica solo per l’ordinaria amministrazione. In quel caso, perciò, come nel Monopoli, si ‘riparte dalla casella Via’. Si torna, cioè, alle consultazioni, nuovo incarico, nuovo giuramento, nuovo voto di fiducia, etc, fin quando non si trova una ‘base’, cioè una maggioranza parlamentare, che lo regga. In sostanza, in una repubblica parlamentare, a ‘vincere’ il braccio di ferro è il Parlamento e non il governo, che, senza di esso, non può ‘vivere’.
I quorum necessari in entrambi le Camere
Evidentemente, questa volta, il risultato dovrebbe essere o ‘chiaro’ o addirittura ‘incontrovertibile’. Il centrodestra (FdI-Lega-FI-Noi Moderati) dovrebbe ottenere una maggioranza larga, se non addirittura schiacciante, in entrambe le Camere, dove – dopo il taglio dei parlamentari (-345) – i quorum sono i suddetti: 201 deputati alla Camera e 104 senatori al Senato (non sono 101 perché, nel novero, van tenuti i 6 senatori a vita), mentre, fino a ieri, i quorum erano 316 (Camera) e 161 (Senato), cioè la metà più uno del plenum.
Ora, va anche detto che, in realtà, e pochi lo sanno, ‘non’ è necessario raggiungere quello che, in brocardo latino, viene detto il quorum del plenum (la metà + 1 dei componenti di ogni Assemblea) e che basta la maggioranza semplice (cioè che i ‘sì’ battano i ‘no’), Ma è pur vero che la maggioranza ‘politica’, cioè assoluta, è considerato un pre-requisito indispensabile, per far nascere ogni governo che voglia governare, almeno in modo ragionevole e tranquillo. Resta in piedi il dato di fatto che, tra consultazioni, rito del giuramento e della campanella, e voto di fiducia, passano un paio di settimane buone, se va bene, mesi e mesi se, come nel 2018, invece ‘va male’.
Morale, siamo già arrivati a inizio novembre…
Se, cioè, la situazione politica s’ingarbuglia o perché non è uscita una maggioranza ‘chiara’, dalle urne (esempio: i tre mesi per formare il governo gialloverde), o perché i partiti della coalizione, pur uscita vincente dalle urne, non riescono proprio a mettersi d’accordo. Sia sul nome del premier che dei ministri e del resto.
E’ solo dopo tutto questo che, finalmente, si potrà far nascere e veder nascere il nuovo governo. Diciamo che, tra una cosa e l’altra, una lite e l’altra, un ingarbuglio e uno gnommero, si è fatto, se proprio tutto fila liscio liscio, fine ottobre, se non, almeno, un più realistico metà novembre.
Sarà un governo guidato, per la prima volta nella storia d’Italia, da una donna, Giorgia Meloni? Lo si scoprirà ‘solo vivendo’. La sola cosa certa è che, appunto, “ci vuole il tempo che ci vuole”…
Nel frattempo, per il futuro governo, incombe già una manovra finanziaria da far tremare le vene nei polsi che andrà fatta in tempi strettissimi, cioè in due mesi (novembre e dicembre), pena rischio di esercizio provvisorio dei conti dello Stato che scatta, in via improrogabile, il 31 dicembre. Fine.