Meloni si chiude in silenzio e lavora alla squadra. Nodo Viminale, con Salvini nel mirino (altrui). Nel Pd fioccano le autocandidature alla segreteria
Il leader della Lega smentisce la possibilità, circolata come indiscrezione, di fare pressione sulla premier in pectore, mettendo sul piatto un appoggio esterno. Anche la Meloni invita a non "credere alle bugie che circolano"
Autocandidature di una elezione ‘infinita’… Le candidature e le autocandidature tornano di attualità nonostante la chiusura della campagna elettorale. Non tanto quelle per un seggio in Parlamento, dove per altro i riconteggi del Viminale e delle Corti di Appello stanno rimescolando le carte con il ripescaggio di alcuni esclusi, come nel caso di Umberto Bossi o del leghista Tonelli che, escluso in calcio d’angolo, allarga le braccia: "dura lex sed lex", sentenzia.
Ma di candidature si parla anche, e soprattutto, per il prossimo esecutivo e pure nei vari partiti.
Giorgia Meloni lavora, infatti, alla costruzione della sua squadra di governo, partita che crea tensioni con gli alleati, soprattutto con la Lega. Matteo Salvini smentisce nettamente la possibilità, circolata come indiscrezione, di fare pressione sulla premier in pectore, mettendo sul piatto un appoggio esterno: “Quante sciocchezze che scrivete..." ha commentato il leader della Lega, dopo che gli staff avevano seccamente smentito tutti i retroscena, a tale riguardo.
“Non credete alle ‘bugie’ dei giornalisti”…
Anche la Meloni invita a non "credere alle bugie che circolano" e promette un esecutivo di "livello che non vi deluderà" assicura dopo aver bocciato quelle che ha definito le “fallimentari gestioni come quella di Speranza&Co". Gira voce, comunque, che non farà parte della squadra di ministri Guido Crosetto, il braccio destro della leader di Fratelli d'Italia, destinato ad altri incarichi di prestigio. "Dal governo sono uscito e sto bene così" twitta Crosetto. Si tira fuori dal toto-ministri anche il governatore leghista del Friuli Venezia-Giulia, Massimiliano Fedriga.
Una giornata un filo meno faticosa di altre…
Quella di ieri è stata una giornata un filo meno faticosa delle ultime appena trascorse, per la presidente del Consiglio in pectore, Giorgia Meloni. Ovviamente, la giornata l’ha passata in via della Scrofa (storica sede dell’Msi, poi di An, ora di FdI), nel suo ufficio, con i suoi fedelissimi, e l’ufficio da deputata ‘semplice’, alla Camera.
Gli incontri di Meloni: il Cio e l’amico Guido
Ha avuto diversi incontri, ieri, Giorgia Meloni. Prima il presidente del Cio, Thomas Bach per rassicurarlo sui Giochi di Milano-Cortina 2026 (ci sta lavorando, in modo aperto, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, che, in un’intervista rilasciata a Qn durante la campagna elettorale, disse che “mi aspetto cose positive, per lo sport, da un governo Meloni”), ma poi, in serata, anche l’imprenditore di Cuneo Guido Crosetto. Co-fondatore di FdI, oggi presidente dell’Aiad (società di difesa aereospaziale, ieri massacrato sui giornali ‘nemici’, dal Fatto a il Domani, per sue presunte partecipazioni in società minori), amico personale della Meloni, ex parlamentare che non ha proprio voluto di nuovo ricandidarsi, Crosetto l’ha difesa in tutte le sedi (comprese molte comparsate tv e varie interviste), ma oggi sembra del tutto disinteressato, distante, atarassico dal ‘giochino’ del toto-ministri che tutti i partiti di centrodestra vanno facendo per sé. Insomma, anche se la lealtà dell’amico Guido, verso Giorgia, resta duratura, ferma, incrollabile, Crosetto potrebbe anche non andarci, al governo, e questa sarebbe, in sé, una notizia assai notevole.
La Meloni, ieri, ha persino tirato un po’ il fiato
Per fortuna, almeno ieri non erano in programma, però, altri incontri al vertice con alleati famelici, esosi, che chiedono ‘posti’ manco fossero figurine da piazzare nel loro personale album. La Meloni, così, ha potuto tirare almeno un po’ il fiato. Ha provato a rispondere, per dire, a “1500 messaggi” ricevuti dalla notte del trionfo a dopo.
Tra questi, molti giornalisti, e di tutti i giornali del Mondo. Alcuni cercano, banalmente, notizie (fanno, cioè, il loro lavoro), altri piatiscono posti, a loro volta: una prece, una raccomandazione, etc. La stampa – specie quella italiana – è uno dei suoi principali crucci. La leader di FdI si ritrova, da due giorni, ‘spiattellati’ sui giornali esiti di incontri (prima con Tajani, poi con Salvini) descritti come scontri epici, tra veri ‘guerrieri’, duelli “all’arma bianca”. Lei non la vede così. Di mattina le – furibonde – smentite pubbliche, sul vertice con Salvini (“Non credete alle bugie”).
Ma ai pochi giornalisti con cui parla direttamente spiega, con tono cortese, sempre gentile, educato, che “non è affatto vero che io e Matteo abbiamo litigato per un’ora sul Viminale (Salvini lo chiede per sé o a Lega, Meloni non vuol cedere, ndr.). Abbiamo fatto un ragionamento ampio e molto meno incentrato sui nomi e sulle caselle”. Sarà. Certo che, al netto del ‘toto-ministri’ – genere letterario che la Meloni si ritroverà, ogni giorno, spiattellato sui giornali, volente o nolente – molti crucci, la premier in pectore, ce l’ha assai: nessuno di questi crucci riguarda il toto-ministri.
Un’altra giornata di passione e ‘toto-ministri’
"Io sono sempre ottimista, mi ha portato fin qui", ha detto, l’altro ieri, la Meloni, lasciando la Camera dopo un’altra estenuante giornata di trattative. Insomma, lei tiene botta, ma la strada è in salita e quello che non dice lei, filtra da via della Scrofa: "Ci vorrà tempo per sciogliere i nodi, sarà lunga e complicata". Mettere a posto le caselle in modo da accontentare tutti è una croce.
Stavolta però c’è un handicap in più: tra i ’tutti’ da accontentare non ci sono solo le forze di maggioranza, ma anche le istituzioni italiane e le centrali europee che tengono il governo della ’sovranista’ sotto stretta osservazione, e per capire con chi avranno a che fare si baseranno prima di tutto sulla lista dei ministri.
Gli Esteri, per esempio: postazione delicata e nel pieno di una crisi internazionale come non se ne vedevano dal 1945. Giorgia avrebbe preferito evitare che alla Farnesina arrivasse un forzista, molto meglio un tecnico, come Elisabetta Belloni. Soprattutto dopo le ultime uscite di Berlusconi qualche dubbio a Bruxelles circola. Ma il Cav vuole Antonio Tajani a Esteri o Difesa.
Anche il ministero da cui dipendono le Forze armate presenta gli stessi problemi. Oggetto delle mire di Ignazio La Russa (in lizza anche per l’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, in alternativa Giovanbattista Fazzolari), mentre Guido Crosetto – che per ogni evenienza ha liquidato le sue società – potrebbe finire al Mise. Poi c’è l’Economia: la casella centrale è quella. Palazzo Chigi ha smentito l’esistenza di un patto con Draghi; in realtà, Giorgia e Super Mario si sono sentiti più dì una volta, di un patto esplicito non c’è bisogno. Le condizioni che avrebbe posto il premier per mettere una parola a favore dell’esecutivo che verrà sono ovvie: appoggio all’Ucraina, Nato e fin qui nessun problema, ma anche garanzia sui conti pubblici. Lì la situazione è più delicata: ci vuole qualcuno che faccia da garante ma Fabio Panetta, figura ideale, ha nuovamente certificato la sua indisponibilità. Così prende quota l’ipotesi dello spacchettamento. Alle Finanze, Maurizio Leo, mentre per il Tesoro di nomi ne circolano tanti: quello dell’ex ministro di Berlusconi, Domenico Siniscalco, ma a dimostrare quanto la faccenda sia in alto mare basta il fatto che gira ancora il nome di Daniele Franco, ma sarebbe un paradosso se un governo guidato dalla sola leader che si opponeva a Draghi si tenesse il più importante dei suoi ministri. C’è chi dice che il dicastero della Transizione ecologica verrà smantellato, e chi vede al Welfare Giorgetti o Luca Ricolfi, Bongiorno alla Giustizia.
Intorno ai due ministeri meno nevralgici per le cancellerie del mondo ma centralissimi per gli italiani, Sanità e Istruzione, ballano tre ’ladies’: l’ipotesi principale sarebbe Letizia Moratti alla Salute e Licia Ronzulli all’Istruzione, ma l’assessora lombarda recalcitra, nei suoi sogni c’è la presidenza della Lombardia. Se dovesse sfilarsi, l’avvicendamento potrebbe portare Licia alla Salute e Anna Maria Bernini all’Istruzione. Sul tavolo resta la proposta di due vicepremier (congelata quella di dare la presidenza della Camera al Pd) per il resto, i nomi del bussolotto sono quelli noti: Adolfo Urso, Daniela Santanchè, Edoardo Rixi, Raffaele Fitto, Gian Marco Centinaio, Roberto Calderoli (se non avrà la guida del Senato e Tajani alla Camera).
Il fatto che siano parlati, in molti, oggi, non significa che saranno ministri domani. Con molte settimane di anticipo sulla formazione del governo, il toto ministri per ora è un gioco. Di certo c’è solo che il problema numero uno per Meloni ha un nome e cognome: Matteo Salvini.
Berlusconi spegne 86 candeline, Meloni lavora
Intanto, mentre Silvio Berlusconi – e pure Pier Luigi Bersani, se è per questo, ma è low profile - festeggia il suo 86esimo compleanno con post su Instagram insieme alla compagna, la neo-eletta Marta Fascina (a Marsala, mai vista in Sicilia), la candidata premier è al lavoro: la sua agenda tra via della Scrofa e Montecitorio è fitta di incontri.
Il messaggio di Vox e quello, maligno, di Biden
Nelle more, cioè tra un incontro e l’altro, ha ringraziato, tra gli altri, degli auguri che le ha invitato il leader spagnolo di Vox, Fernando Abascal: nel messaggio afferma che sta lavorando "per affrontare i problemi degli italiani, con la concretezza tipica dei conservatori. E speriamo che anche la Spagna vada a destra".
Sembra una risposta indiretta alle dichiarazioni del presidente americano, Joseph Biden, che si è detto allarmato per il risultato delle elezioni italiane con una frase che non è passata affatto inosservata: "Avete appena visto cosa è accaduto in Italia in quelle elezioni. Vedrete cosa accadrà nel mondo" avverte Joe Biden, preoccupato soprattutto, e lo dice apertis verbis, "per quello che potrà accadere qui", negli Stati Uniti. Ove mai, cioè, i Repubblicani, ancora prigionieri dell’era Trump, dovessero vincere le elezioni, anche se solo quelle di mid term (metà mandato).
Resta che, “oggi in Italia e domani in Spagna”, come si direbbe rovesciando l’antico grido di battaglia degli antifascisti degli anni Trenta, le elezioni, in Europa, continua a vincerle la Destra. Negli Usa, quando sarà (a novembre) si vedrà….
Candidature a leader di partiti oggi in disarmo con il ‘caso’ della Lega
Ci sono poi le candidature, o in alcuni casi le autocandidature, alle segreterie dei partiti. Se ne parla nella coalizione del centrodestra, dopo il deludente risultato della Lega. L'ex ministro, Roberto Maroni, torna all'attacco e lancia il governatore veneto Luca Zaia come segretario.
Il presidente della regione Veneto si schernisce e assicura di voler continuare ad occuparsi solo della sua regione, ma Maroni insiste, ricordando che la segreteria di Salvini scade proprio nell'anno in corso. Ma, soprattutto, Maroni propone, e qui una figura come quella di Zaia potrebbe aiutare, una federazione tra FI e Lega.
Un progetto - sostiene Maroni, ex ministro nel governo Berlusconi I e ultimo segretario federale dopo Bossi e prima di Salvini - che potrebbe essere proprio tema di una proposta di programma per la nuova segreteria della Lega.
Per ora, però, nella Lega sono assai impegnati con il cruccio del governo, per il congresso si vedrà più avanti e molto dipenderà dal ‘posto’ che avrà Salvini: se avrà gli Interni è un conto, se non li avrà è un altro, se sarà vicepremier è una cosa, se non lo sarà è un’altra, se i suoi uomini – i fedelissimi – saranno al governo è una ‘storia’, se non lo saranno è un’altra ancora e via declinando.
Nel Pd, invece, ormai siamo a ‘X Factor’…
Ma è nel Pd, dove Enrico Letta ha annunciato di non volersi ricandidare in vista del prossimo congresso, che già fioccano le autocandidature. Lo fa, in un'intervista, la ex ministra e deputata rieletta a Piacenza, Paola De Micheli che si candida a guidare i dem perché dice “Il Pd non può più essere quello dell'un po’ e un po’. Quello dei messaggi mai netti”. Insomma, lei ‘c’è’, dice.
C'è poi il governatore dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che non si dichiara apertamente in corsa per la segreteria ma chiede, sempre in una intervista, "un cambiamento profondo o - prevede - bruceremo in fretta anche il prossimo segretario". Anche lui lamenta l’arrivo al voto senza "un progetto forte per l'Italia e un'alleanza all'altezza della sfida". Morale, Bonaccini c’è, pronto a lanciarsi e presto.
A chiedere uno stop a questa corsa alle autocandidature è invece il sindaco di Firenze, Dario Nardella, anche lui nel toto-candidati per la prossima segreteria: "non siamo a X Factor, se questa è la direzione di marcia la lascio ad altri".
Eppure, sembra proprio che Nardella si ritirerà, presto o tardi dalla corsa, formalmente non ancora iniziata, quella per fare il leader del Pd. Nel partito, persino in quello toscano, gli ‘amici’ (di Nardella) scarseggiano, mentre i suoi ‘nemici’ (il presidente della Regione Giani, la sinistra dem, la Bonafé) aumentano di giorno in giorno. Poi, la sua ‘corrente’, Base riformista, gli ha caldamente chiesto di non candidarsi e lui, anche se non subito, dovrebbe decidere di non farlo.
Chi non intende deflettere, dalla corsa, è invece il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, che ora dice che “prima viene l’idea di partito, solo dopo i nomi”, ma che è spinto a scendere nella pugna dai suoi (marchigiani e non solo) e che può vantare una ‘rete’ di sindaci, quella di Ali (Autonomie per l’Italia), guidata da un ‘Lothar’ d’eccezione, un ‘asso’ organizzativo, Valerio Lucciarini, che sta organizzando il consueto ‘Festival delle Città’: si terrà ai primi di ottobre con un parterre de roi.
Infine, non si ritirerà di certo, non foss’altro perché è già scesa in campo in modo ufficiale, la ex lettiana Paola De Micheli, che è di Piacenza.
“Cherchez la femme!” dentro il Pd, va bene, ma le elette democrat sono un numero esiguo.
Cherchez la femme!, dunque. E, come leader, va pure bene, sarebbe, anzi, una bella novità. Paola De Micheli, neo rieletta, si è già candidata. La pasionaria metà svizzera e metà australiana, Elly Schlien, sarebbe pure lei sul punto di farlo, ma deve affrettarsi a prendere la tessera del Pd, che non ha mai preso (militava prima in ‘Occupy Pd’ e poi in ‘Possibile’ di Pippo Civati, etc,), solo che, per candidarsi al congresso, ci vuole, ecco.
Altre donne sono previste in ticket: Bonaccini ne cerca, ad oggi, ancora una che non ha trovato, ma il cartello già recita: “AAA cercansi: bella presenza, giovane, del Sud, con molti voti suoi”.
Per capirsi, la segretaria regionale toscana del Pd, Simona Bonafé, pure a lungo da lui ‘corteggiata’, e neo-eletta alla Camera (è stata candidata come prima nel listino bloccato, quota proporzionale), dopo una lunga e proficua esperienza a Bruxelles, nel Parlamento Ue (è stata, fino a ieri, vice-capo, cioè vice-presidente del gruppo del PSE-DEM: è tosta, preparata, brillante, una che ha studiato), ha spiegato ai suoi che preferisce concentrarsi nel suo nuovo incarico, quello arrivato alla Camera.
Inoltre, Bonaccini è emiliano e la Bonafé è toscana: se è pur vero che sono rimaste le uniche due zone dove il Pd dei voti ancora li prende, è anche vero che, a Bonaccini, serve ‘rafforzarsi’ al Sud, dove gli mancano truppe e uomini, oltre che donne, più che al Centro o, anche, al Nord.
Solo il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, che pure si candiderà, non la cerca, una donna in ticket. Invece, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, a sua volta molto tentato, dalla corsa in solitaria, sembra proprio che, alla fine, non si candiderà, e ora dice, giustamente, “mica siamo a X Factor”.
Ma il problema delle ‘donne’, nel Pd, è un altro. Tra le truppe parlamentari dem sopravvissute alla débâcle, appena un eletto su tre è donna. A fare di conto sono due dirigenti dem, Alessia Morani e Monica Cirinnà, entrambe risultate non elette e, dunque, col dente avvelenato in sommo grado.
Ce l’hanno, naturalmente, con la parità di genere più sbandierata che applicata, dicono entrambe, nonostante le quote rosa e l’obbligo di alternanza uomo/donna nella compilazione delle liste dem. Perché più della presenza ‘formale’ negli elenchi, ha contato, ovviamente, il posto attribuito in lista. Più o meno velatamente, nel mirino c’è Letta.
Morani e Cirinnà, non elette, contro Letta
Morani, deputata uscente ed ex sottosegretaria al Mise, dice: “Dai miei conti le donne elette nei gruppi del Pd sono 32. Meno di un terzo. Mi pare un argomento di discussione interessante, nel Pd. Gli impegni della segreteria sulla parità erano altri. Bisogna che ora qualcuno spieghi cosa è successo”. Dello stesso tenore le parole di Monica Cirinnà, senatrice uscente, non rieletta: “Tra Camera e Senato le donne elette nel Pd sono 36 su 119, circa un terzo. Arduo e scomposto dare patenti di maschilismo a FdI, dalla leader donna”.
La Cirinnà ce l’ha direttamente con Letta e infierisce: “La parità si pratica e non si predica o è una foglia di fico per coprire giochi di correnti”.
Un’altra deputata, ma rieletta, Chiara Gribaudo, twitta: “Abbiamo un problema: 36 donne su 119 parlamentari del Pd è un numero troppo basso. È successo nel 2018, succede ancora. Dobbiamo cambiare radicalmente la cultura patriarcale del Pd. Questo è un tema da congresso, non i nomi”.
Al gruppo delle donne dem elette, va sottratta, dulcis in fundo, Caterina Cerroni: la segretaria dei Giovani dem (31 anni), ieri aveva annunciato trionfalmente l’elezione alla Camera dei deputati, nel suo Molise, ma è diventata una delle vittime dei riconteggi del ministero dell’Interno. Il seggio le è stato tolto per colpa dell’effetto flipper insito nella legge elettorale con cui si è appena votato. La pattuglia delle elette dem si assottiglia ancora. Quelle delle candidate al congresso, poi si vedrà.