[L’analisi] I soldi per il reddito di cittadinanza ci sono, per la flat tax no. Ha vinto il realismo, ha vinto Tria
L’impegno centrale dei grillini costa circa 15 miliardi di euro, ma potrebbe essere in larga misura finanziato attingendo ai 2,5 miliardi del reddito di inclusione previsto dal governo Gentiloni e, soprattutto, al recupero dei 9 miliardi di euro del bonus Renzi, quello degli 80 euro al mese. Per flat tax e pensioni, invece, si tratterà soprattutto di un avvio assai limitato, sufficiente per mandare un segnale, ma senza esborsi significativi

Giovanni Tria ha un sorriso mite, ma l’aria tosta. Questo spiega, per un buon pezzo, la svolta che ha portato i due partiti di governo a mettere la sordina ai ripetuti proclami su una manovra economica d’autunno che non avrebbe guardato in faccia nessuno, tanto meno i vincoli di Bruxelles. E’ la conferma indiretta di quanto grillini e leghisti si siano solidamente accomodati nella gestione di un potere di cui hanno cominciato a gustare l’ebbrezza: scontrarsi con un ministro dell’Economia che puntava i piedi, magari fino alle dimissioni, avrebbe significato far saltare il governo. Evidentemente, non è questa, oggi, la prospettiva. Se ne riparlerà dopo le elezioni europee della prossima primavera. Per intanto, la parola d’ordine è realismo. A imporlo – e a spiegare, per il pezzo restante, la svolta – le fibrillazioni dello spread in un’estate molto difficile: nell’arco di tre mesi, Di Maio e Salvini si sono visti sfilare sotto il naso 100 miliardi di euro di titoli pubblici venduti e incassati all’estero. Né il leader dei 5Stelle né quello della Lega se la sono sentita, per ora, di sfidare i mercati finanziari che tengono in mano un terzo del debito pubblico italiano.
Il ciglio del crinale, tuttavia, è sottile e nessuno può escludere, in due partiti abituati a tenere al massimo della tensione la propaganda, nuova smania di spallate: da subito vedremo, nei prossimi giorni, se i colonnelli grillini e leghisti si accoderanno senza sussulti all’indicazione dei leader e se questi terranno la barra dritta. Ma, all’inizio della seconda settimana di settembre, la prospettiva è che, secondo una ricetta vecchia come la politica, i programmi incendiari della campagna elettorale saranno raffreddati dallo scorrere del tempo. Reddito di cittadinanza, flattax e pensioni a quota 100 (fra età anagrafica e anni di contributi) restano in cima agli obiettivi di governo, ma per essere realizzati, conti permettendo, nei cinque anni della legislatura. Tria l’aveva detto a giugno, appena insediato.
SAVONA E LA LEVA DEGLI INVESTIMENTI. La formulazione più brillante di una possibile strategia per realizzare il programma di governo senza sfasciare tutto l’aveva data a luglio Paolo Savona. Cinquanta miliardi di euro di investimenti (un terzo pubblici, il resto delle imprese pubbliche come l’Eni) varati a tambur battente, potrebbero dare una sferzata all’economia, fornendo (via maggiori introiti fiscali) le risorse per approvare, entro la legislatura, i tre comandamenti del governo, fra tasse e sussidi. La Ue avrebbe forse finito per dare semaforo verde ad investimenti fuori bilancio, ma l’inventiva di Savona si scontra con la realtà del sistema italiano. E’ dubbio che 50 miliardi di investimenti diano davvero al paese la sferzata che produce le risorse promesse. Ma è certo che, non queste risorse, ma ancor prima gli investimenti annunciati non si materializzerebbero prima di qualche anno. Il problema, infatti, ha fatto notare sotto voce Tria, non sono neanche i soldi: a bilancio (e quindi già “spesati” e inclusi nei calcoli con la Ue) ci sono già 140 miliardi di possibili investimenti in strade, scuole, opere anti terremoto e anti alluvione. Il problema è che non si riesce a spendere neppure quelli, fra un intralcio burocratico e una carenza di progetti e di capacità progettuali, altro che stanziarne di nuovi.
NIENTE MIRACOLI. Se strategie-miracolo non sono possibili, quale manovra può essere impostata? Nella raffica di vincoli che pongono i trattati Ue, ce ne sono, in realtà, solo due che a Bruxelles importano davvero. Il primo è il rapporto del debito con il Pil, oggi sopra quota 130 per cento. Il secondo è il deficit strutturale, da non confondere con il normale disavanzo. Mentre il disavanzo è semplicemente la differenza fra entrate e uscite del bilancio pubblico, il deficit strutturale è quello che si può calcolare, tenendo conto dello stato dell’economia. Il deficit strutturale è, insomma, quello che resta quando, dal disavanzo nominale, si sottraggono gli effetti temporanei che sta determinando una recessione (che comporta meno introiti fiscali e più spesa sociale) o un boom (al contrario, più entrate e meno spese). Insieme, i due parametri costituiscono il certificato di salute di un paese, al netto di raffreddori, indigestioni, mal di testa passeggeri. A Bruxelles importa soprattutto che i due parametri, rispetto all’anno precedente, mostrino una diminuzione, anche minima, anche solo dello 0,1 per cento. Purtroppo, per noi è la prova più difficile. Il rapporto debito-Pil scenderebbe da solo, se l’economia (cioè il Pil) si espandesse. E il deficit strutturale si ridurrebbe spontaneamente, se l’economia mostrasse un potenziale di crescita superiore alla attuale. Invece, l’economia italiana, trimestre dopo trimestre, rallenta (più 0,2 per cento nel secondo, dopo lo 0,3 per cento del primo). Fra giugno e luglio, le imprese, anziché aumentare i dipendenti, hanno tosato 90 mila posti a tempo indeterminato.
IL NUMERO MAGICO. In questi tempi grami, entra in scena un numero magico. Secondo le indiscrezioni del Tesoro, Tria vorrebbe fissare il disavanzo (quello nominale, la differenza fra entrate e uscite) all’1,6 per cento del Pil. Andare oltre, significherebbe inevitabilmente un aumento del deficit strutturale, che farebbe irrigidire la Commissione di Bruxelles. Ma l’1,6 per cento del Pil corrisponde anche a 23 miliardi di euro. Che è esattamente la cifra corrispondente al disavanzo già incorporato nei conti dell’anno prossimo: 12,4 miliardi per scongiurare l’aumento dell’Iva, 4 miliardi di spese incomprimibili (missioni all’estero etc.), 4 miliardi di maggior spesa sugli interessi del debito pubblico (effetto diretto del picco di spread di queste settimane), 2,5 miliardi di minori introiti fiscali per via del rallentamento dell’economia. Dunque, l’1,6 per cento di deficit è più alto di quanto previsto da Gentiloni, ma consente di ridurre (sia pur di qualche spicciolo) il deficit strutturale e di coprire la parte ormai ineliminabile del disavanzo. Per tutto il resto, a partire dalle promesse elettorali, bisogna in sostanza trovare nuovi soldi.
LA BATTAGLIA DI SETTEMBRE. Sarà questa, dunque, se uno o ambedue i partiti di governo non decideranno di far saltare il tavolo, la battaglia di settembre. In questo quadro, un po’ a sorpresa, la promessa elettorale che ha più possibilità di realizzarsi a breve scadenza è quella del reddito di cittadinanza. L’impegno centrale dei grillini costa circa 15 miliardi di euro, ma potrebbe essere in larga misura finanziato attingendo ai 2,5 miliardi del reddito di inclusione previsto dal governo Gentiloni e, soprattutto, al recupero dei 9 miliardi di euro del bonus Renzi, quello degli 80 euro al mese. Per flat tax e pensioni, invece, si tratterà soprattutto di un avvio assai limitato, sufficiente per mandare un segnale, ma senza esborsi significativi.
L’ASSALTO ALLA DILIGENZA. Basterà ai leghisti? Chiederanno una distribuzione diversa delle scarse risorse disponibili? La partita non si chiude, comunque, a settembre, con le decisioni del governo. Le agenzie di rating, che hanno rinviato le loro valutazioni dell’economia italiana, in attesa dei dati di bilancio, farebbero forse bene ad aspettare dicembre e il varo finale, in Parlamento, della manovra. L’esperienza di queste settimane mostra che, nelle commissioni e in aula, è facile approntare imboscate, assalti, repentini cambi di fronte che possono stravolgere i pilastri della manovra: facile aspettarsi emendamenti al rilancio sulla flat tax, sulla Fornero, sul condono fiscale. Per Tria, ma ora anche per Di Maio e Salvini è un invito ad allacciarsi le cinture.