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Quando è esplosa la pandemia il sistema sanitario è andato in tilt: gli errori da non ripetere

Un gruppo creato su facebook di circa centomila medici ha scritto una lettera indirizzata al ministro della Salute Roberto Speranza e ai Governatori di tutte le regioni per affrontare questo problema

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
Medici in prima linea
Medici in prima linea

Non sappiamo dire se ci sono state delle colpe nelle battaglie perse contro il coronavirus dall’Italia e dalla Lombardia soprattutto. A quelle ci sta pensando la magistratura. Ma un errore sì, c’è stato, un errore grande come una casa, e che viene da lontano, come una sorta di peccato originale, perché appartiene al modello ormai obsoleto di una sanità che, nella sua struttura piramidale legata a doppio filo con la politica, ha finito per accentrare tutto, le carriere e persino i malati.

Così, quando il Covid-19 è sceso dal cielo come una nuvola carica di pioggia, il nostro sistema sanitario non ha fatto altro che fare quello che ha sempre fatto, e ha continuato a centralizzare qualsiasi cosa e qualsiasi persona, pazienti, cure, dottori e pure il virus, affollando i pronti soccorso e richiamando su di sé l’epidemia: una vera e propria bomba biologica si è abbattuta sui nostri ospedali, che sono diventati degli incubatori del contagio, prima di tutto fra il personale sanitario.

E’ uno sbaglio che abbiamo pagato a caro prezzo e che rischiamo di pagare ancora, se i partiti non faranno un passo indietro e non decideranno di delegare finalmente al territorio la sanità, portandola fuori dagli ospedali, che resterebbero solo per le emergenze più gravi. Bisognerebbe creare dei presidi mobili che sostituiscano in pratica i pronti soccorso e i vecchi medici della mutua, assorbendone le funzioni.

Non è un caso che i primi a chiedere questo cambio di passo siano proprio gli operatori in prima linea. E un gruppo creato su facebook di circa centomila medici ha scritto una lettera indirizzata al ministro della Salute Roberto Speranza e ai Governatori di tutte le regioni per affrontare questo problema. Si tratta di un appello accorato che sottolinea con molta evidenza l’errore che è stato commesso in Lombardia e altrove: «i pazienti vanno trattati il più presto possibile sul territorio, prima che si instauri la malattia vera e propria, ossia la polmonite interstiziale bilaterale, che quasi sempre porta la persona contagiata in Rianimazione».

I medici sottolineano con forza che bisogna intervenire all’inizio dell’infezione, a casa dei pazienti e non quando l’unica soluzione possibile diventa quella di ricoverare il malato attraverso il passaggio obbligato del Pronto Soccorso. Ma proprio per questo, proprio «per non vanificare l’abnegazione di medici e personale sanitario», scrivono nella loro lettera indirizzata al ministro e ai governatori, «oltre ai dispositivi di protezione e ai tamponi chiediamo di Rafforzare il Territorio, vero punto debole del Servizio Sanitario Nazionale, con la possibilità per squadre speciali di essere attivate immediatamente in tutte le regioni, in maniera omogenea e senza eccessiva burocrazia».

In questa richiesta c’è soprattutto l’idea di quel progetto alternativo rispetto all’attuale sistema sanitario, con i presidi sparsi sul territorio, ma c’è anche una ragione clinica, come sottolineano i medici: «Siamo giunti alla conclusione che il trattamento precoce può fermare il decorso dell’infezione verso la malattia conclamata e quindi arginare l’epidemia fino a sconfiggerla».

Ora tutto questo, gli appelli e le speranze di un nuovo corso si scontrano però con la realtà e le resistenze dei partiti che su quel modello hanno creato non solo la loro immagine ma anche instaurato profondi e consolidati interessi. Pierdante Piccioni, il Doc della Fiction con Argentero, nel raccontare in un libro che sta per uscire adesso la battaglia dei medici «In prima linea» contro il coronavirus scrive che «ci vorrebbe una vera e propria rivoluzione culturale. Bisogna decentralizzare. Ospedali di comunità, l’infermiere di comunità, l’Italia dei Comuni.

Poche cose importanti negli ospedali, i grandi interventi chirurgici e altre emergenze di questo tipo, ma il controllo, la prevenzione, dev’essere sul territorio. Invece qual è la logica adesso? Se tu hai un male, qualsiasi male, vai dal miglior medico di riferimento in ospedale. Ma così si è lasciato sguarnito il territorio. Ed è stato un errore fondamentale. Tutte le battaglie si vincono sul territorio: nelle elezioni, in politica, nelle guerre. Ha sempre vinto chi si è radicato sul territorio».

Oggi, abbiamo perso per questo. Piccioni fa un esempio: «Al posto di mandare i pazienti a fare le radiografie in ospedale, perchè non si fanno le ecografie a casa, che sono più specifiche e certe malattie gravi le vedono pure meglio? E poi, soprattutto, l’ecografo è trasportabile. Costa meno e lo possono portare tutti, squadre di medici e infermieri che vanno a casa del paziente. Se avessimo già usato questo sistema con il coronavirus forse avremmo risparmiato metà delle paure e dei danni che ha provocato quest’epidemia. E avremmo avuto molti meno contagi».

Prima o poi bisognerà che qualcuno se ne renda conto. Certe evidenze sono sotto gli occhi tutti. Il Veneto, con Zaia, ha cercato di decentrare il più possibile andando a fare i tamponi a tappeto a casa della gente, e guarda caso la diffusione del virus è andata sempre più rallentando. In Lombardia, parlano le fotografie del Pronto Soccorso dell’ospedale di Bergamo, pubblicate l’altro ieri sui giornali, dove si vede uno stretto corridoio con il pavimento lucido finalmente svuotato dalla folla che lo assediava nei giorni più difficili di questa pandemia. Pochi tamponi e troppa gente concentrata tutta nell’ospedale: questo era successo, a Bergamo come a Codogno, a Milano, a Brescia, a Lodi.

Non si tratta di un processo al Pirellone. Anzi, in questi giorni la Lombardia è finita ingiustamente sotto attacco, con commenti di impronta indubbiamente razzista. La verità è che se la Lombardia non guarisce, se non riapre presto e non riparte, il prezzo che dovremo pagare sarà molto salato per tutti noi e per l’intero Paese, visto che il suo sistema vale da solo oltre il venti per cento del pil nazionale.

Senza la Lombardia l’Italia si blocca, e senza i suoi 50 miliardi di residuo fiscale annuo con cui aiuta lo Stato, anche le altre regioni non sarebbero in grado di far funzionare i loro servizi. Ma proprio perché la Lombardia è così centrale e determinante per il Paese, il cambiamento non può che partire da lì, dall’epicentro del cataclisma sanitario. Dal suo modello, che sembrava il migliore, e forse lo era, prima che il virus mostrasse al mondo il suo peccato originale.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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