Alitalia, un'azienda zombie che perde un milione di euro al giorno: vi spiego da chi e perché verrà salvata un'altra volta
In 10 anni i contribuenti hanno bruciato una decina di miliardi di euro per rimettere tre volte in pista il cadavere della compagnia di bandiera: con i “capitani coraggiosi” di Berlusconi (2008), gli sceicchi di Etihad (2014), il governo (2017).
A Palazzo Chigi e dintorni piace, probabilmente, pensarla come una araba fenice, che risorge dalle sue ceneri. Fuori dalla cerchia dei visionari, tutti sanno che, in realtà, è uno zombie, sostanzialmente defunto da decenni, ma che continua a perseguitare il paese, succhiando soldi e risorse. Negli ultimi dieci anni, i contribuenti hanno bruciato una decina di miliardi di euro per rimettere tre volte in pista il cadavere di Alitalia: con i “capitani coraggiosi” di Berlusconi (2008), gli sceicchi di Etihad (2014), il governo (2017).
Ma la compagnia non è mai resuscitata
Continua a perdere un milione di euro al giorno. Chi può, come negli horror del genere, scappa: nell’ordine Air France, Easyjet, Lufthansa, Poste, Cassa depositi e prestiti, Leonardo, Fincantieri. Chi è rimasto incastrato, non fa nulla per nascondere lo sgomento: Ferrovie, Tesoro, Delta. Per tutti gli altri, che ancora credevano alle fantasie di Palazzo Chigi, il velo dell’illusione, come nei film, è stato strappato dai professionisti. Lo zombie è davvero uno zombie: i commissari liquidatori, che avrebbero dovuto cedere l’azienda e, dopo due anni, sono ancora lì a mettere cerotti, questa settimana sono andati in Parlamento e hanno detto: “Il termine scade domenica prossima, 31 marzo. Se sono in grado di farci vedere un progetto serio, possiamo aspettare ancora 2-3 settimane. Altrimenti, entro Pasqua, la legge ci impone di procedere alla liquidazione”.
Compagnia di bandiera
Grillini e leghisti tenteranno di inventarsi qualche salto mortale per evitare quello che, nel resto del mondo, viene considerato inevitabile. Ne hanno già fatto uno, del resto, per schivare la soluzione più a portata di mano: cedere Alitalia a Lufthansa. La compagnia aerea tedesca avrebbe dimezzato gli attuali 11 mila dipendenti, avrebbe trasformato l’azienda italiana in una compagnia regionale, avrebbe preteso di avere la maggioranza azionaria dell’azienda e, specificamente, di tenere rigorosamente fuori e ben lontano il governo italiano. Di Maio e Salvini hanno detto no perché 5 mila posti di lavoro in meno sembravano troppi (ogni perdita di lavoro è un dramma personale che va rispettato, ma il totale, in realtà, non sembrava ingestibile e il settore aereo, in vibrante espansione, può garantire un riassorbimento). Ma, soprattutto, hanno detto no perché le condizioni poste da Lufthansa (voli regionali, maggioranza tedesca, niente governo) comportavano la cancellazione della compagnia di bandiera nazionale.
Una mutilazione che i politici italiani – non solo grillini e leghisti – sentono evidentemente insopportabile, anche se, negli affollati cieli del mondo di oggi, è pratica corrente. Belgio e Svizzera vi hanno rinunciato, Gran Bretagna e Spagna hanno messo insieme le loro. E, in ogni caso, il punto chiave è che il termine compagnia di bandiera, per Alitalia, è una sorta di medaglia senza contenuto: il 92 per cento di chi attraversa il cielo per venire o lasciare l’Italia sceglie altre linee. Anche sulle rotte nazionali, Alitalia non copre più del 14 per cento dei passeggeri, meno di Ryanair.
Il progetto industriale
Ci sono, insomma, molte possibilità che il salvataggio in corso o, per meglio dire, in programma, non sia l’ultimo. Quei dati sul traffico intercettato da Alitalia mostrano, infatti, in una luce cruda qual è, da tempo, il problema della compagnia italiana. Nella concorrenza spietata di oggi nei cieli, Alitalia, con i suoi 20 milioni di passeggeri l’anno, è troppo piccola. Solo in Europa, Ryanair e Easyjet ne trasportano, rispettivamente, 7 e 5 volte di più. E, nella spirale perversa che gli economisti conoscono benissimo, le conseguenze si vedono nelle quote di mercato: se porto meno passeggeri, o offro meno voli o riempio meno gli aerei. Alitalia fa tutt’e due le cose: i suoi aerei sono pieni, in media, al 79 per cento, contro il 90 per cento di Ryanair e Easyjet. Vuol dire, rispetto ai concorrenti, costi maggiori e ricavi minori. In questo modo, Alitalia perde un milione di euro al giorno. Se interpretasse a tutto tondo il ruolo di compagnia di bandiera – che vuol dire assicurare per ragioni strategiche, geopolitiche o, comunque, di interesse nazionale, rotte altrimenti non remunerative sul piano aziendale – sarebbero di più. Chissà se qualcuno ha prospettato a Di Maio e Salvini questo conto.
Perché il progetto industriale schizzato da Di Maio non rompe questa spirale. L’unica idea, nel fumoso schema in base al quale ci si sta muovendo, è la sinergia fra gli aeroporti e il traffico ferroviario gestito da Fs. Ma a Fs non conviene investire per assicurare questi collegamenti, anche a livello di marketing, per raggiungere i clienti Alitalia, meno di un sesto del totale dei viaggiatori. Dovrebbe, semmai, cercare accordi con tutte le compagnie, come, del resto, avviene, senza tanti proclami, in Francia e in Germania.
I numeri non convincono
Ma, anche per Alitalia, non è un’idea che cambierebbe la la vita. Nessuno può credere che offrire una opzione treno incorporata nel biglietto possa gonfiare la quota di mercato di Alitalia. Ancora meno, dopo che, con l’uscita dal progetto di Easyjet, si è persa la possibilità di agganciarsi ad uno dei giganti del traffico a corto e medio raggio europeo. Delta, che è un gigante, sì, ma del lungo raggio non sembra in grado di garantire, da sola, il flusso di traffico. I voli intercontinentali sono proporzionalmente più redditizi, ma sono di meno.
E’ il motivo per cui Delta si è rapidamente trasformata in un azionista riluttante, facendo scendere il suo impegno per una quota della futura società, dal 20 al 10 per cento. Se la compagnia americana restasse, nella nuova società, l’unico partner industriale, si creerebbe la paradossale situazione per cui chi ha il compito di gestire, di prendere le decisioni operative, di impegnare la società su gravosi investimenti (gli aerei costano) può far valere solo una quota ultraminoritaria e minuscola: o deve, volta per volta, passare attraverso complicate trattative per convincere gli altri o prende impegni per tutti, rischiando troppo poco.
Le sedie vuote
Non sono solo i numeri di Delta a non convincere e non basta che dal cilindro degli abboccamenti in corso esca qualche altro partner industriale ad impegno limitato come Delta. Il Tesoro dovrebbe avere il 15 per cento della nuova compagnia, ma occorre che Bruxelles dia il via libera alla trasformazione in azioni di quel che resta del prestito di un miliardo di euro fatto due anni fa e tuttora in odore di “aiuto di Stato”. Fs ha posto il limite invalicabile del 30 per cento delle azioni, che è già alto per un’azienda pesantemente esposta con le sue obbligazioni sul mercato, già caricata del compito della fusione con l’Anas e alle prese con l’esigenza – anche politica – di rispettare le ambiziose promesse di nuovi treni (per 6 miliardi di euro) ai pendolari. Il totale fa 55 per cento della nuova compagnia. Anche se un’altra compagnia internazionale (si era parlato di China Eastern) accettasse una scommessa come quella di Delta, saremmo al 65 per cento. Ci sono poco più di due settimane per riempire le altre sedie del consiglio di amministrazione.