[Il ritratto] “Chi comanda è solo”. Vi racconto il segreto del successo di Marchionne
Raccontò: “Giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori senza nessuno per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come facevo a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?». Non fa solo quello: passa anche delle ore nei punti vendita trasformando gli impiegati abituati a trattare i clienti da dipendenti pubblici, con immensa sopportazione e altrettanto fastidio”
Dovevamo ancora conoscerlo quando il primo giugno 2004 si presentò in giacca e cravatta pronunciando le sue prime parole alla stampa, con quello strano accento americano: «Fiat ce la farà. Il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione. Prometto che lavorerò duro, senza polemiche e senza interessi politici». Tirava una brutta aria a quei tempi, quasi senza speranze, con l’azienda che perdeva due milioni di euro al giorno e i conti che rimanevano a galla solo grazie al prestito convertendo concesso da una cordata di banche nel 2002, «che di lì a poco più di un anno - a settembre 2005 - avrebbe consegnato le chiavi del Lingotto ai creditori», come ha ricordato Repubblica.
La missione impossibile di Sergio Marchionne cominciò così.
Umberto Agnelli l’aveva cooptato nel consiglio d’amministrazione un anno prima proprio per questo, perchè questo signore dai modi così diretti da sembrare persino brutali un miracolo l’aveva appena già fatto, da amministratore delegato della SGS di Ginevra, azienda leader nei servizi di ispezione, verifica e certificazione con 55mila dipendenti in tutto il mondo, risanata prodigiosamente in appena due anni. Torino era una scommessa parecchio più grande. Ma l’uomo che salvò la Fiat per portarla nel mondo ha sempre creduto ciecamente in quel che faceva. Forse questo è uno dei suoi segreti. L’altro è il talento dei grandi giocatori di poker: puntare più alto nel momento peggiore della partita. Ma bisogna saperlo fare: conoscere molto bene gli avversari e scegliere l’attimo giusto.
Giacca e cravatta le lasciò quasi subito
In quel clima da ultima spiaggia, tre giorni dopo l’addio di Giuseppe Morchio, fra nugoli di avvoltoi e spettatori increduli, Sergio Marchionne non si spaventò. Giacca e cravatta le lasciò quasi subito, per sostituirle con quei pullover blu notte o neri d’inverno, con tanto di zip le prime volte, e le polo d’estate. Uomo più pratico che elegante, come spiegava lui ai soliti giornalisti: «E’ tutta questione di praticità, visto che trascorro gran parte del mio tempo in volo». Molto poco italiano: in verità era proprio quello che serviva alla Fiat. Cominciò come aveva promesso. Lavorando duro, più duro di tutti. «Alle quattro del mattino sono già al computer», confessò. Con la prima sigaretta: due pacchetti al giorno, da fumatore accanito, sostituiti negli ultimi tempi da quelle elettroniche. Iniziò stupendo tutti: modi, parole, abitudini, pareva tutto così inusuale da sembrare un extraterrestre capitato nell’azienda più italiana e torinese insieme che si potesse pensare, con ritmi e approcci nel lavoro quasi gogoliani, abbastanza tristi pur nella loro efficacia.
"Ho cambiato tutto", disse
A Ezio Mauro ricordò i suoi primi sessanta giorni, «dopo che ero arrivato qui, nel 2004. Giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori senza nessuno per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come facevo a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?». Non fa solo quello: passa anche delle ore nei punti vendita trasformando gli impiegati abituati a trattare i clienti da dipendenti pubblici, con immensa sopportazione e altrettanto fastidio. Fa tutto, dalle piccole cose alle grandi. Persino lo slogan per lo spot della 500, che una sera legge a Giulio Anselmi, direttore de La Stampa, per chiedere il suo giudizio: «La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo, il nostro tempo». Quella macchina è una scelta azzeccata, un successo miracoloso. Ma non basta certo a salvare la Fiat.
Per riuscirci deve fare qualcosa di più grande.
Sparigliare i giochi. Mentre gli altri si aggirano sulla Fabbrica come avvoltoi su una carcassa, nell’aprile 2009 dopo lunghe e travagliate trattative per l’acquisizione della Chrysler lui annuncia l’ingresso nell’azienda americana. Marchionne ha osato dove General Motors ha tentennato. Il genio non è solo velocità. Dalla Germania protestano, ricordando malevolmente la situazione debitoria della Fiat. Non conoscono Marchionne. Tratta con sindacati e presidente americano, presenta un piano di investimenti che convince tutti. Grazie alla strategia attuata nel primo trimestre 2011 la casa automobilistica è tornata all’utile. Partito dal venti per cento, oggi ha il cento per cento della Chrysler. Prova persino a raddoppiare con un’altra acquisizione, senza riuscirci, però salva l’Alfa dalla Volkswagen che voleva papparsela in un boccone. Il miracolo è compiuto. La Detroit Free Press gli dedica un titolo grande così: «Il generale senza paura». Lui non molla un attimo. Lavora più duro di prima, implacabile con se stesso come con gli altri. «Io ai miei dirigenti dò il voto tutti i giorni. Oggi è 8, ma domani è 4».
Come tutti i grandi, è soprattutto un uomo solo.
«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo». Così solo che non si accorge nemmeno del successo che lo abbraccia. Colleziona lauree honoris causa, ben 9, tre in Italia e sei negli States. Lui qualche laurea ce l’ha già, e se l’è presa con il massimo dei voti. Figlio di Concezio Marchionne, maresciallo dei carabinieri, e di Maria Zuccon, veneto istriana, emigrato in Canada con la famiglia negli anni giovanili, si laurea in filosofia all’Università di Toronto. Poi in legge alla Osgoode Hall Law School of York Univesrity. E dopo Master in Business Administration. Comincia a lavorare da commercialista, procuratore legale, avvocato. E nell’83 entra da avvocato commercialista alla Deloite Touche: «Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi rende un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro». Non c’è una svolta nella sua carriera, ma un’ascesa costante, continua. Doveva fare il carabiniere, come suo padre: «Volevo andare alla Nunziatella, poi la storia ha preso un’altra piega». Ma un po’ è rimasto carabiniere, anche se non l’ha mai fatto, come ha rivendicato pochi giorni fa: «Mio padre era un maresciallo dei Carabinieri. Sono cresciuto con l’uniforme a bande rosse dell’Arma e ritrovo sempre i valori che sono stati alla base della mia educazione: la serietà, l’onestà, il senso del dovere, la disciplina, lo spirito di servizio».
Uno strano genio, metà visionario e metà lavoratore indefesso
In realtà, il percorso dell’uomo che ha salvato la Fiat ha davvero qualcosa del genio, uno strano genio, metà visionario e metà lavoratore indefesso, un giocatore di poker senza il vizio del gioco, che è l’ossimoro migliore per spiegare Marchionne, a modo suo un signore così normale, così uguale ai figli della sua generazione venuti al mondo negli anni della rinascita dopo le distruzioni della guerra. Nella vita di tutti i giorni, è uno che si rilassa in cucina, - «la mia specialità è il ragù bolognese» -, e ha cominciato ad apprezzare il vino solo a 43 anni: prima mai un bicchiere, «poi ho provato un Brunello e mi ha corrotto». Ama la musica. Quella lirica soprattutto: e al Regio di Torino erano le uniche volte dove si poteva rivederlo in giacca e cravatta, come in quella foto d’archivio accanto a John Elkann e Montezemolo che lo consegnò ai giornalisti all’inizio del suo cammino in Fiat, vestito di scuro con la cravatta allacciata larga, come a voler già sottolineare tutta la sua fatica nel doverla portare.
Aveva amato De André in gioventù. Adorava la Callas.
E potevi vederlo con il suo pullover nero a un concerto di Keith Jarrett o di Bobby McFerrin, ma pure mischiato in una folla di attempati signori ad ascoltare Paolo Conte. L’hanno definito renziano, ma noi l’unica frase che ricordiamo su Renzi è un’uscita poco gentile e persino sbagliata: «E’ il sindaco di una piccola e povera città». In realtà dopo, essendo un uomo Fiat, un’azienda che non è mai stata contro i governi, cercò di adeguarsi e arrivò persino a dire che l’avrebbe votato, avesse potuto. Poi non l’ha mai votato. L’uomo che ha salvato la Fiat per portarla nel mondo aveva altro da fare.