L’Italia è ufficialmente in recessione, nel 2020 spunta lo spettro dell'aumento Iva e dei tagli alla sanità

L’Italia è ufficialmente in recessione, per la terza volta in poco più di dieci anni. La frenata dell’ultimo trimestre è più brusca di quanto si aspettassero gli analisti: pensavano ad un altro -0,1 per cento sul dato del trimestre precedente, come era già avvenuto in estate. Invece, a fine 2018, annuncia l’Istat, l’economia italiana si è ristretta dello 0,2 per cento. Più che rallentare, siamo andati a sbattere. Ma, per le prospettive di fondo del paese, non è neanche la notizia peggiore. Che è questa: l’Italia ricade in recessione, senza essersi mai messa davvero alle spalle la crisi. Torna a perdere colpi, senza essere riuscita a toccare nuovamente il livello di ricchezza, a cui il paese era arrivato prima dell’ultima crisi, nel 2011. E’ il segno di una economia malata: in una corsia d’ospedale, i medici scuoterebbero preoccupati la testa. Anche perché gli ottimisti sono pochi: prima che l’Italia si rialzi, ci sono consistenti probabilità che cada ancora più in giù, fino a rischiare una caduta a spirale nel 2020.
Va proprio così male? Di chi è la colpa? Siamo vittime delle guerre commerciali di Trump? Si sgonfia la politica del governo? Ci vorrà un’altra manovra? E’ solo una pausa innocua? L’anno prossimo splenderà il sole? Gli ottimisti sono quasi tutti raggruppati nel governo e si sono subito preoccupati di lanciare messaggi che ridimensionino la crisi, stornino gli allarmi, rassicurino sulle strategie, anche se, per mesi, hanno negato l’esistenza di un problema. Vediamo.
E’ COLPA DEL GOVERNO PRECEDENTE (DI MAIO). Il vicepresidente del Consiglio in quota grillina è stato lesto nello scaricare – ancora una volta - le responsabilità sulle “bugie” del governo precedente, che avrebbe mentito sull’Italia fuori dalla crisi. In effetti, l’economia sta sensibilmente rallentando dall’inizio del 2017: il ritmo di incremento del Pil è sceso da 0,5 per cento di inizio 2017 a 0,3 fine anno a +0,1 per cento nella primavera 2018, subito prima degli ultimi due trimestri negativi. E’ il segno che l’economia italiana non riesce ad acquistare velocità, che il suo modello di sviluppo è drammaticamente superato: la crisi, insomma, è strutturale. Tuttavia, fra una ripresa asfittica e una recessione, la differenza è cruciale. E i due trimestri di recessione coincidono esattamente con l’entrata in carica – nel giugno scorso – del governo Conte, a cui è mancata la capacità di dare una svolta.
ALL’ESTERO TIRA UNA BRUTTA ARIA (CONTE). Il presidente del Consiglio, Conte, ha subito ricordato i venti ostili che spirano sulla congiuntura internazionale: la locomotiva Germania ha dovuto quasi dimezzare le sue previsioni di crescita 2019, la locomotiva cinese perde colpi, la locomotiva americana rallenta. Per l’Italia, votata all’export, un clima insostenibile. Solo che i dati Istat assolvono la componente estera dalle cause della recessione. Da giugno a dicembre, le esportazioni hanno tirato. La falla si è aperta, invece, sul lato della domanda interna. Più che i consumi, si sono gelati gli investimenti. Nel terzo trimestre (ultimo dato disponibile) nel pieno dell’incertezza sulle strategie del governo, si sono ridotti dello 0,1 per cento. Nei mesi successivi non deve essere andata meglio. L’Italia è l’unico paese dell’eurozona che ha visto restringersi il credito. Le banche, dicono le statistiche della Bce, hanno stretto il cordone dei prestiti e li hanno resi più costosi. E le imprese, sull’onda della gelata estiva, ne hanno chiesti di meno. Sono gli stessi mesi dello spread sui titoli di Stato impazzito, dei bilanci delle banche strozzate dal crollo di valore dell’ingente portafoglio di quei titoli pubblici. I dati più recenti confermano: quest’inverno è crollata la fiducia dei consumatori e quella delle imprese.
IL REDDITO DI CITTADINANZA DARA’ FIATO AI CONSUMI. Da Paolo Savona in giù, tutti quelli che nel governo hanno familiarità con l’economia sottolineano che le più importanti misure di spesa (reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni) pesano sul disavanzo statale ma costituiscono uno stimolo per l’economia e funzionano in chiave antirecessiva. In materia, il dibattito è quanto meno acceso. Ma qui conta che lo stimolo è assai flebile. Un importante centro di ricerca (Ref) valuta lo stimolo di queste misure come un aumento dei consumi pari allo 0,6 per cento, più meno quanto è avvenuto ai consumi nel 2018, senza le riforme. Lo scetticismo ruota intorno ai tempi di effettiva attuazione delle misure e delle relative spese, per cui, probabilmente, bisognerà aspettare il 2020, che, tuttavia, presenta altri problemi.
BRUXELLES NON PUNTERA’ I PIEDI (TRIA). Il ministro del Tesoro, Tria, esclude che la Ue possa chiedere una nuova manovra che tamponi gli effetti sul disavanzo (meno entrate per il fisco) della recessione in corso. L’accordo – dice – riguarda il deficit strutturale, cioè quello che si determina al netto delle oscillazioni, in su in giù, del ciclo congiunturale. Dunque, se la congiuntura peggiora, l’accordo tiene lo stesso. E’ una visione un po’ ragionieristica. Al di là dell’impatto immediato sul disavanzo, che potrebbe salire di qualche punto decimale sopra il 2 per cento, sono gli equilibri della finanza pubblica in bilico. Se l’aumento del deficit spaventa i mercati e crea tensioni sui titoli di Stato, crescono lo spread e gli interessi da pagare agli investitori. Ma se il costo del debito aumenta più in fretta del Pil (che è in diminuzione), il rapporto debito/Pil peggiora, le agenzie di rating e i mercati si spaventano anche di più, alimentando la spirale perversa. Siamo sempre – a questi livelli di debito – ostaggio dei mercati.
NON CAMBIEREMO LE STIME 2019 (SAVONA). Anche un economista sofisticato come il ministro Paolo Savona si è scagliato contro i modelli econometrici “obsoleti” che vedono nero sul futuro dell’economia italiana. I dati Istat appena pubblicati non gli danno ragione e svuotano le previsioni ufficiali del governo. A cui, peraltro, non crede neanche il ministro del Tesoro dello stesso governo di Savona. Tria ha, infatti, quietamente rivelato che il bilancio 2019 non è stato affatto costruito sull’ipotesi di una crescita, se non dell’1,5 per cento, come detto a settembre, dell’1 per cento, come scritto nei documenti ufficiali. Il Tesoro si muove già sulla base di una previsione dello 0,6 per cento (la stessa della Banca d’Italia, sbeffeggiata da Di Maio e Salvini). Il problema è che anche lo 0,6 per cento rischia di essere troppo ottimistico.
La frenata di fine 2018 già toglie, infatti, due punti decimali allo sviluppo 2019. Ammesso che l’economia torni ad espandersi nella seconda metà dell’anno, difficilmente si arriverà oltre lo 0,4 per cento. Che è già territorio di ottimisti. Un grande banca di investimenti – Barclays – prevede lo 0,2 per cento e l’ultima previsione degli analisti di Ref indica sviluppo zero.
I CONTI SENZA L’IPOTECA. Come tutto questo possa scaricarsi sui conti del 2020, il vero anello fragile nelle prospettive immediate dell’economia italiana, è difficile quantificare. Ma è un’ombra scura che incupisce le previsioni. Secondo Bankitalia, nel 2020 l’Italia registrerà una crescita positiva dello 0,9 per cento. Ma è una previsione che evita, deliberatamente, di misurarsi con due inquietanti ipoteche. La prima è lo sviluppo 2019: una cosa è arrivare al 2020 sulla scia di una crescita (come quella ufficialmente prevista da Via Nazionale) dello 0,6 per cento, un’altra con uno 0,2 o lo 0 tondo di altre proiezioni. Come già avvenuto ora, l’effetto di un rallentamento superiore al previsto nel 2019 toserebbe anche le prospettive dell’anno successivo. La seconda ipoteca è anche peggio. 0,9 per cento, chiarisce Bankitalia, senza considerare l’aumento dell’Iva che il governo ha messo in conto per pagare le spese di reddito di cittadinanza e quota 100. Quell’aumento vale 23 miliardi di euro: se il governo lasciasse gravare sui consumi un extratassa di questa entità, la crescita 2020 perderebbe, solo per questo, fra 3 e 5 decimali, scendendo allo 0,4-0,6 per cento, sempre senza considerare il trascinamento 2019.
Altrimenti, deve trovare 23 miliardi tagliando la spesa pubblica. L’unico settore che può dare risultati di questa entità, dicono gli esperti, è la sanità.