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Che succede al Pnrr senza Draghi? Vediamo dove è blindato e dove no

I dubbi e i timori, dopo la caduta del più autorevole presidente del Consiglio da molti anni, sono tanti: il ruolo in Europa, l'atteggiamento verso Mosca, l'emergenza gas e petrolio, la gestione del debito pubblico

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Mario Draghi
Mario Draghi (Foto Ansa)

In concreto, l'incognita cruciale del dopo-Draghi è riassunta in quattro lettere: Pnrr. I dubbi e i timori, dopo la caduta del più autorevole presidente del Consiglio da molti anni, sono tanti: il ruolo in Europa, l'atteggiamento verso Mosca, l'emergenza gas e petrolio, la gestione del debito pubblico. Ma quel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, concordato con l'Unione Europea, è la grande scommessa – sia per subito che per i prossimi anni – del futuro del paese.
Subito, perché sono denari sonanti che entrano. Abbiamo già incassato quasi 46 miliardi di euro, ne avremo 21 per aver centrato gli obiettivi del primo semestre 2022, altri 19 se faremo bene i compiti da qui a fine anno. Poi ce ne toccano, fino al 2026, ancora quasi 125 miliardi di euro.

Per i prossimi anni, perché – come è stato detto e ripetuto – il Piano e i finanziamenti che comporta sono un'occasione unica e irripetibile. L'economia italiana è ferma da trent'anni. Di fatto, siamo più poveri di allora: l'Italia è l'unico paese europeo in cui il reddito pro capite è diminuito. Solo ripensando le grandi direttrici di sviluppo e alimentandole con una grande cascata di investimenti si può sperare che il paese riparta. Dunque, dopo Draghi a che punto siamo con questa grande scommessa nazionale? La risposta è che il Pnrr è assai più blindato di quanto si potesse temere. Il Piano che Draghi lascia in eredità è un treno lanciato su binari prefissati e con vagoni numerati e inquadrati. Un governo Meloni, Letta o Calenda non può di fatto cambiare né l'equipaggio, né il percorso, né il contenuto dei vagoni. Il grande pericolo è che lo fermi. Vediamo.

La prima preoccupazione di Draghi è stata, in tandem con Bruxelles, blindare la cabina di regia del Piano. Le strutture tecniche di gestione sono esplicitamente sottratte dal decreto che le ha istituite agli interventi dei futuri governi. In buona sostanza, Chiara Goretti, alla segreteria tecnica di Palazzo Chigi e Carmine Di Nuzzo al Servizio centrale della Ragioneria del Tesoro, nonché le varie unità di missione nei ministeri resteranno in carica fino ad esaurimento del piano, nel 2026. Tocca a loro incanalare gli appalti, i progetti, i decreti. Un futuro governo potrebbe sovrapporre a questi tecnici una figura politica, una sorta di ministro coordinatore, ma la cosa piacerebbe, probabilmente, assai poco alla Commissione che, con questi tecnici (ricordiamo che il Piano italiano è, di gran lunga, il più corposo e importante di quelli lanciati nel quadro del NextGenEu) ha un rapporto quotidiano e ben oliato e che, alla fine, regge i cordoni della borsa, sulla base di una scrupolosa verifica di intenzioni e risultati (in una parola, “vedere cammello...”ecc.).

La sponda di Bruxelles è un altro dei motivi per cui l'eredità di Draghi, affidata alle leggi delega approvate in questi mesi, è abbastanza solida anche per quel che riguarda, dopo l'equipaggio, il percorso del treno e il contenuto dei vagoni. La seconda blindatura di Draghi riguarda, infatti, le linee generali del percorso di ripresa del paese. Appena insediato, l'ex presidente della Bce, oltre a cementare la governance del Pnrr, mettendola al riparo da cambi di governo, rovesciava anche, un po' a sorpresa, rispetto a quanto hanno fatto altri governi, la logica del Piano, anticipando le riforme rispetto ai progetti. Ecco perché si è concentrato, nell'anno e mezzo a Palazzo Chigi, sulla riforma della giustizia e poi della concorrenza, piuttosto che sul varo dell'alta velocità. Adesso le leggi delega sul processo penale, quello civile, la giustizia tributaria, quella fallimentare, la revisione della concorrenza – concessioni balneari comprese – ci sono, il lavoro nelle commissioni parlamentari le ha messe a fuoco, Bruxelles le ha vistate. I margini per tornarci sopra – quali possano essere le pulsioni della Meloni o di Salvini – sono pari a zero.

Questa solidità di fondo dell'impianto del Pnrr ha già prodotto benefici che vanno al di là del Piano. Se l'economia italiana, in questa prima parte del 2022, ha girato più velocemente del previsto, fino a scavalcare già il tasso di aumento del Pil che il governo aveva previsto ad aprile è anche perché il clima complessivo ha favorito una spinta agli investimenti, anche del settore privato. Ora, tuttavia, è il momento di far partire gli aspetti concreti del Piano, il passaggio in cui la burocrazia italiana è, storicamente, più debole. Da qui a fine anno, per guadagnare la terza tranche dei finanziamenti europei, bisogna centrare 55 obiettivi, alcuni dei quali decisivi: avviare la riforma del processo penale, civile, fallimentare, il riassetto delle commissioni tributarie, cominciare ad assumere in massa nei tribunali, far partire la digitalizzazione della pubblica amministrazione e del sistema ospedaliero, lanciare il piano di lotta al lavoro sommerso e, contemporaneamente, aprire i grandi appalti, come l'alta velocità sulla Napoli-Bari e la Palermo-Catania.

Una marea di decreti attuativi da mettere in campo, proprio nei tre mesi, da qui a novembre, di campagna elettorale e poi di scontro politico che, presumibilmente a metà novembre, ci porteranno al nuovo governo. E' l'ultimo compito che attende Mario Draghi e niente affatto il più semplice: se qualcuno, fra i partiti, vuol mettersi di traverso o far deragliare il treno, questa è l'occasione.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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