[L'analisi] Si accende il riflettore Ue sui paradisi fiscali: dove vanno i 70 miliardi sottratti anche alle nostre casse
Sette Paesi che sottraggono a governi quali quelli di Roma e Madrid, strangolati dalla crisi e dal Covid, finanze di cui avrebbero maledettamente bisogno
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E' il capofila dei cosiddetti paesi “frugali”, quelli che storcono il naso di fronte a finanziamenti troppo facili ai paesi europei – come Italia e Spagna – più tormentati dal coronavirus. Il Fondo per la ripresa europea, che vedrà la luce nelle prossime settimane, non deve fare regali, ma prestiti - dice l'Olanda, insieme ad Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia - che dovranno essere, quindi, regolarmente rimborsati. Una elementare norma di buona e prudente amministrazione, sostengono all'Aja, quella che tradizionalmente consente, alla stessa Olanda, un bilancio pubblico che, relativamente ai tempi cupi che viviamo, testimonia deficit e debito sotto controllo.
Ma nelle casse ben colme dell'Aja c'è tutta farina del sacco olandese? O sono il frutto di una mano (fiscale) lesta e spregiudicata? Il dubbio non riguarda solo l'Olanda. Anche il Lussemburgo, Cipro, Malta, l'Irlanda e l'Ungheria. Tutte insieme, calcolano a Bruxelles, le legislazioni fiscali di manica larga di questi paesi sottraggono agli altri 21 paesi della Ue tasse per 70 miliardi di euro l'anno, che, in questa congiuntura, farebbero maledettamente comodo a governi, come quelli di Roma e Madrid, strangolati dalla crisi e dall'epidemia.
Riflettore sui paradisi fiscali
Dopo molte esitazioni e rinvii, dunque, la Commissione di Bruxelles ha deciso di accendere il riflettore su queste forme di “dumping fiscale”, ovvero di concorrenza tributaria sleale. Tanto che, nei giorni scorsi, nel diffondere, come ogni anno, le sue Raccomandazioni di primavera ai singoli paesi, la Commissione, in un esercizio dedicato, in questo 2020, quasi esclusivamente ad esaminare la risposta dei singoli paesi all'epidemia, ha trovato modo e tempo di commentare con toni bruschi il fisco facile dei sei paesi.
Da quando la Ue ha fatto accordi di trasparenza tributaria in giro per il mondo, la lista di quelli che Bruxelles definisce ufficialmente paradisi fiscali, dove si va, cioè, per non pagare tasse, si è molto ristretta. Ne è uscita la Svizzera, e poi Monaco e San Marino, insieme alle isole della Manica e a parecchie dei Caraibi. La lista ufficiale richiama palme e baie più remote: Samoa, Figi, Cayman, Guam, Palau, Seychelles, Trinidad e Tobago, le Vergini, Vanuatu, più il sultanato di Oman e Panama. Sono i paesi che la Ue definisce “non cooperativi ai fini fiscali”.
Il Dl Liquidità e i paesi "non cooperativi"
Un emendamento appena approvato al Senato esclude dalle facilitazioni del Decreto Liquidità (quello delle garanzie statali sui prestiti alle imprese) le aziende che abbiano sede legale in questi paesi “non cooperativi”. Fra i quali non c'è, però, nessun paese europeo.
Ma se Olanda e Lussemburgo non sono paradisi fiscali, sono vasti purgatori a rapida espiazione: tappe di passaggio, da dove profitti e rendite, protetti da salvacondotto fiscale, vengono avviati ai paradisi veri e propri o, comunque, a paesi con tassazioni molto più basse di quelle correnti in Europa. Anche più basse di quelle applicate nella stessa Olanda e che sono fra i motivi ufficiali che hanno spinto sia gli Agnelli che i Berlusconi a spostare le sedi legali di Fca-Chrysler, come della sua controllante Exor, da un lato, di Mediaset dall'altro, a Amsterdam. Questo squilibrio nelle aliquote fiscali è una ferita aperta nel cuore dell'economia europea, su cui sono appena tornati, in questi giorni Angela Merkel e Emmanuel Macron. Ma il problema che pone ora la Commissione non riguarda le tasse più basse di Amsterdam o Lussemburgo, rispetto a quelle che le stesse aziende pagherebbero a Parigi, Berlino o Roma. Ma la possibilità che non ne paghino affatto.
Gli Stati dal fisco facile
Tre le spie di questo fisco facile, si deduce dalle Raccomandazioni di Bruxelles. La prima è la proliferazione societaria. Nel piccolo Lussemburgo c'è una società ogni 4,6 abitanti: in media, è come se ce ne fosse una ogni due appartamenti. In Olanda, la densità è appena minore: una società ogni 7,4 abitanti. A occhio, sempre in media, una ogni tre famiglie. La seconda spia è il tipo di società. Molte – troppe, secondo Bruxelles – di queste società sono, in effetti, Special Purpose Entities, il nome inglese per società che non hanno, nel paese, né dipendenti, né attività reali. Scatole vuote che si riducono, spesso, ad un conto in banca. Il terzo campanello d'allarme è l'assenza, nella legislazione fiscale del paese, di una trattenuta alla fonte sui profitti.
Olanda e Lussemburgo incassano i proventi delle imposte sulle società (numerose, appunto) ma il flusso di profitti e rendite prende la via dell'estero, libero da ogni imposizione, salvo quella che incontrerà – se la incontrerà – nei paesi di destinazione. Non sono rivoli marginali. Un centro studi olandese ha calcolato che, fra il 2014 e il 2016, il 25 per cento dei dividendi pagati dalle società con sede nei Paesi Bassi, come il 45 per cento degli interessi pagati sui prestiti ottenuti dalle stesse società è stato dirottato in questo modo a paesi a fisco minimo o paradisi fiscali veri e propri. I dati degli anni precedenti dicono che fino al 75 per cento delle royalties (i diritti che si pagano sulla proprietà intellettuale e che sono il grosso degli incassi dei giganti del web, da Google a Apple) hanno seguito lo stesso percorso. Una massa di denaro che si muove a senso unico.
“L'alto livello di dividendi, royalties e interessi – conferma il testo delle Raccomandazioni varato dalla Commissione – che transitano in questo modo per l'Olanda suggerisce che il sistema fiscale olandese viene usato da aziende e società per una pianificazione tributaria aggressiva” (è il termine di gergo che definisce gli sforzi per evadere attivamente più tasse possibile). “L'assenza di trattenute alla fonte su royalties e interessi che cittadini Ue pagano a residenti in paesi terzi – chiarisce ancora la Raccomandazione – può portare a una evasione totale, se poi non c'è una imposizione nel paese di destinazione finale”.
L'ombra del riciclaggio
La Commissione butta sul tavolo anche l'ombra del riciclaggio: per un paese così esposto, visto il numero di società e l'economia molto aperta verso gli scambi con l'estero, le denunce di casi sospetti di lavaggio di denaro sporco appaiono sorprendentemente poche.
Dall'anno prossimo, l'Aja ha assicurato che imporrà trattenute alla fonte, quando ci sono sospetti di abuso o quando il denaro viene avviato verso giurisdizioni visibilmente troppo fiscalmente accomodanti. Anche il Lussemburgo garantisce più controlli. Bruxelles fa sapere che monitorerà da vicino questi sviluppi. Ma, intanto, le maglie fiscali della Ue si slabbrano anche altrove. L'Ungheria di Orbàn sembra decisa a ripercorrere la strada dell'Olanda, mostrando una volatilità eccessiva, secondo Bruxelles, dei fondi in entrata e in uscita dal paese che verrebbe favorita – anche qui – dall'assenza di una trattenuta alla fonte sui redditi diretti all'estero.
Diversi gli altri tre casi individuati dalla tecnocrazia comunitaria. Per l'Irlanda c'è la tassazione ad aliquote stracciate dei redditi da capitale delle grandi aziende americane dell'high-tech. Per Cipro e Malta, il problema sono soprattutto i soldi degli oligarchi russi e l'ombra di violazioni che non sono solo tributarie. Bruxelles si preoccupa della facilità con cui, nelle due isole, si possa ottenere la cittadinanza (che dà un passaporto comunitario) senza obblighi di residenza fiscale.