[L’analisi] La nuova grande recessione è dietro l’angolo per colpa di Trump. E l’Italia e l’Europa rischiano di più
Verrà presto il momento in cui i benefici delle banche centrali finiranno, i tassi di interesse si posizioneranno su livelli più alti, la Cina ridurrà gli stimoli fiscali che ne hanno guidato l’espansione, gli Usa dovranno cominciare a pagare il conto, sul bilancio federale, dello choc fiscale che stanno producendo. E quel giorno il rischio potrebbe essere maggiore per chi avrà conti pubblici meno sostenibili all’occhio dei mercati. E questo venerdì non è stato un venerdì come un altro
Che cosa abbiamo imparato dal recente passato? Forse poco o nulla. Mentre l’economia Usa vola (il Pil viaggia a +4%), la guerra dei dazi di Trump con Cina ed Europa, la minaccia di Washington di uscire dal Wto, la crisi valutaria argentina, quella turca, le tensioni nell’Unione europea, preannunciano tempeste sui mercati. E l’Italia accusava ieri la sentenza dell’agenzia di rating Fitch sul debito con un calo drastico della Borsa e un innalzamento dello spread a quota 290 tra Btp italiani e Bund tedeschi. Fitch ha confermato il rating dell'Italia a BBB ma ha rivisto l’outlook che da “stabile” passa a “negativo”. Il debito pubblico italiano resterà “molto elevato” lasciando il Paese più esposto a potenziali shock, afferma l'agenzia di rating. Tra le criticità indicate la “natura nuova e non collaudata del governo e le considerevoli differenze politiche fra i partner della coalizione”.
Pur non essendo così nero questo appena trascorso non è stato un venerdì come un altro. Basta appena voltarsi indietro per riflettere. Era il 15 settembre 2008 quando Lehman Brothers dichiarò bancarotta mentre esplodeva la bolla dei mutui immobiliari subprime. Fu un bagno di sangue mondiale. Nell'aprile 2009 il Fondo Monetario Internazionale stimò in 4.100 miliardi di dollari il totale delle perdite delle banche e della altre istituzioni finanziarie internazionali. Il conto lo abbiamo pagato tutti noi. Per rendere l’idea la cifra colossale delle svalutazioni delle attività delle banche a causa della crisi corrispondeva a un reddito annuo di 20.500 dollari per 200 milioni di lavoratori, oppure a 1/3 dello stesso stipendio annuo per 600 milioni di lavoratori. E’ così che siamo diventati più poveri e anche più incattiviti. Sappiamo almeno affrontare meglio le crisi finanziarie, si chiede il Financial Times? La risposta non è così rassicurante.
Il punto centrale _ spiegava il capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld, in un rapporto diffuso all’inizio dell’anno _ è che verrà presto il momento in cui i benefici delle banche centrali finiranno, i tassi di interesse si posizioneranno su livelli più alti, la Cina ridurrà gli stimoli fiscali che ne hanno guidato l’espansione, gli Usa dovranno cominciare a pagare il conto, sul bilancio federale, dello choc fiscale che stanno producendo. E quel giorno il rischio potrebbe essere maggiore per chi avrà conti pubblici meno sostenibili all’occhio dei mercati. “La prossima recessione _ scriveva nel suo rapporto Obstfeld _ può essere più vicina di quello che sembra e le munizioni con le quali dovremo combatterla sono forse più limitate rispetto a dieci anni fa perché i debiti pubblici oggi sono molto più alti”. Un discorso che ovviamente riguarda da vicino l’Italia.
L’eredità della crisi finanziaria del 2008, sottolinea il Financial Tiems, avrebbe dovuto essere un ripensamento dell’economia di mercato come avevano auspicato alcuni roboanti discorsi di Barack Obama di Angela Merkel. E invece un decennio dopo ci siamo ritrovati con Trump, la Brexit e un dilagante ritorno del nazionalismo e di un populismo, fortemente venato di demagogia.
Il processo che si è avviato nel settembre 2008 con il crollo della Lehman Brothers ha prodotto due grandi perdenti: la democrazia liberale e l’apertura dei confini internazionali. Il Financial Times indica come colpevoli i banchieri, i governatori della banche centrali, politici ed economisti. Il mondo è cambiato ma non nella direzione di riforme ragionate ed efficaci: è mutato per l’esplosione dell’insofferenza popolare .
Dopo un decennio di stagnazione dei redditi e di austerità fiscale, non è poi così sorprendente che ci sia stata una sorta di rivolta populista contro le élite. Anche nelle democrazie più ricche_ quella italiana è tra queste essendo tra l’altro il secondo Paese europeo per produzione industriale_ c’è stato un generale rifiuto del liberismo economico e della globalizzazione. Le ondate migratorie su larga scala avrebbero potuto essere in qualche modo assorbite vent’anni fa ma in questa fase sono diventate distruttive o percepite come tali: non basta dire all’opinione pubblica italiana che il fenomeno è calato dell’80% in un anno. In tempi di crisi e di austerità i migranti vengono presi come un facile capro espiatorio.
Uno degli aspetti che colpisce di più è come sia cambiato poco sui mercati finanziari: la lezione del decennio scorso è andata perduta. E’ vero che allora perse il posto qualche banchiere ma il peso della crisi, con i salvataggi bancari, è ricaduto sugli azionisti e soprattutto sugli stati che hanno dovuto allagare i cordoni della borsa. Mentre banchieri e operatori continuano a contare i loro ricchi bonus come se nulla fosse accaduto: gli elettori hanno così punito l’establishment che allora aveva “salvato”, con i nostri soldi, il sistema.
Il problema è che oggi come allora, e forse adesso ancora di più, i profitti sono stati privatizzati mentre le perdite sono pubbliche. Esattamente come era accaduto per lungo tempo nell’economia della Jugoslavia che finì per crollare negli anni Ottanta, dopo la morte di Tito, quando nessuna delle repubbliche della Federazione voleva più pagare per il debito dello stato federale. L’Unione europea, con le debite differenze, somiglia un po’ a quella Jugoslavia e non avrà un giorno neppure un Maresciallo da rimpiangere.