[L’esclusiva] Marchionne racconta Marchionne: “Il grande male della Fiat che ho dovuto combattere”
Ecco l’intervento integrale (mai pubblicato) che ha tenuto al Meeting di Rimini del 2010 davanti ad una platea di ragazzi: “Nel 2004 ho trovato una struttura immobile, chiusa in se stessa, che prendeva come base di riferimento i propri risultati invece delle prestazioni della concorrenza. Aveva perso la voglia di confrontarsi con il resto del mondo”.

L’uomo che ha salvato la Fiat portandola nel mondo, in fondo ha realizzato semplicemente quella che era stata la sua vita. In questi giorni hanno detto di lui che era un personaggio transnazionale, proprio quella che è diventata la Fca. Sergio Marchionne non doveva essere una persona facile. A vederlo, per quelli come noi che non l’hanno conosciuto, magari a una festa dei carabinieri, sempre da solo, in un angolo, al limitare della scalinata d’ingresso, con il suo maglione nero, una sigaretta in una mano e nell’altra il cellulare che non smetteva mai di leggere, dava soprattutto l’idea di uno che cercava la normalità nell’impossibilità di trovarla. Il fatto è che come tutti quelli dominati dalla passione del lavoro, finiva per essere un uomo molto solo. Lui che aveva preso la sua prima laurea in filosofia amava citare abbastanza spesso Hegel: «Nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione». Era quasi il suo alibi per spiegare agli altri questa sua dedizione ossessiva, che l’ha reso, alla fine dei giorni, a modo suo, un rivoluzionario. Nel dibattito che ha acceso, ancora prima di morire, fra chi lo osannava e chi lo criticava, una cosa resta evidente sopra tutte. Ha svolto il suo compito, che piaccia o no, in maniera persino miracolosa. Ha preso la Fiat sull’orlo del baratro e le ha ridato qualcosa di più del suo posto al sole. Ha tolto tanti posti di lavoro. Ma molti ne ha salvati. Alla resa dei conti, per raccontarlo com’era davvero, forse bisognerebbe soltanto affidarsi alle sue parole. E nel 2010, ai ragazzi del meeting di Rimini, Sergio Marchionne aveva confessato se stesso come un padre fa con i suoi figli: «Sono nato in Abruzzo a Chieti, a circa 250 chilometri da qui, ma per motivi famigliari e di lavoro ho vissuto all’estero la maggior parte della mia vita. Ho dovuto imparare presto a cambiare casa, abitudini e amici. Avevo 14 quando andammo a vivere in Canada e vi confesso apertamente che non è stato facile. Non è mai facile iniziare tutto da capo in una terra sconosciuta, con una lingua straniera, imparando a gestire la solitudine di alcuni momenti».
“Viaggiare è una brutalità”
Marchionne più di una volta citava Cesare Pavese sostenendo che aveva ragione lui quando diceva che «viaggiare è una brutalità, obbliga ad aver fiducia degli stranieri, e a perdere di vista i contorni familiari della casa e degli amici. Ci si sente sempre fuori equilibrio, nulla è nostro, tranne l’aria, i sogni, il mare e i cieli». Eppure, come disse quel giorno a Rimini, «è proprio per questo che viaggiare è uno straordinario modo di crescere e di farlo in fretta». Sergio Marchionne non ha mai smesso di viaggiare. Dopo la laurea in filosofia è andato a prendersene un’altra e a trovare lavoro negli States. E poi ha continuato a girare. Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, ogni paese è stato la sua terra. La mia Patria è il mondo, come dicevano i figli dei fiori. Non aveva niente di loro, però. Marchionne è quasi nato manager: disciplina e senso del dovere, inculcati dal padre maresciallo dei carabinieri, e la passione del lavoro. Ma con qualcosa in più. Sui libri di filosofia aveva imparato a conoscere Arthur Schopenauer. E il filosofo tedesco aveva descritto così la differenza tra il talento e il genio: chi vede una cosa che vedono tutti, ma la realizza solo lui, ha talento; chi realizza invece quello che nessuno vede è un genio. La cosa strana di Marchionne è che nella sua dannazione della normalità mancata ha sempre cercato quello che gli altri non vedevano. Alla Fiat ha fatto semplicemente questo, giocando d’azzardo, aprendosi al mondo. Ma «sono dovuti passare 40 anni e ancora altre due nazioni, la Francia e la Svizzera, prima che la vita mi riportasse in Italia».
“Il grande male della Fiat”
E quando è arrivato lì, a Torino, era qualcosa di più che uno straniero in casa. Era un marziano, che guardava adesso dal di dentro questa azienda con un particolare scoramento: «Molto spesso le ragioni del declino sociale ed economico di un Paese hanno a che fare con ciò che non abbiamo saputo o voluto trasformare, con l’abitudine di mantenere sempre le cose come stanno. Questo è stato anche per tanto tempo il grande male della Fiat. Nel 2004 ho trovato una struttura immobile, chiusa in se stessa, che prendeva come base di riferimento i propri risultati invece delle prestazioni della concorrenza. Aveva perso la voglia di confrontarsi con il resto del mondo». Quest’uomo solitario, all’apparenza abbastanza scontroso, eppure anche molto alla mano, molto easy, così americano, è riuscito a trasformare in poco tempo questa struttura anchilosata e ferma nel tempo in un’azienda affacciata sul mondo: «la partnership con la Chrylser è stata possibile solo grazie all’apertura internazionale. Se non avessimo avuto un approccio globale non avremmo mai potuto cogliere questa opportunità».
“La comodità è una prigione”
Il segreto, insegnò Marchionne, era semplicissimo. Non fermarsi mai, non adagiarsi sulle proprie piacevoli abitudini. Come disse quel giorno ai ragazzi di Rimini «l’uomo che sceglie il proprio comodo è condannato a vivere in una prigione che si è costruito da solo, dove i muri sono troppo alti e troppo spessi per far passare l’aria o vedere la luce. Chi guarda troppo a se stesso non sarà mai una persona libera, perché avrà altro spazio se non quello limitato e fragile dello specchio. La vera libertà esiste solo nell’impegno». Ed è la libertà che ci permette di fare le cose grandi. La libertà e la passione, come diceva Hegel. «Le strade comode e rassicuranti non portano da nessuna parte. Le strade comode fanno solo perdere il senso del viaggio. Essere liberi significa anche trovare il coraggio di abbandonare i modelli del passato e le vecchie abitudini e dipendenze». Questa è stata la sua lezione. Oggi, disse Marchionne, la Fiat è tornata grande perché «ci sono uomini e donne che agiscono con decisione e coraggio. Sono persone che sanno che solo una condotta morale può assicurare merito e dignità a qualunque risultato». Ha cambiato l’azienda dal di dentro giocandosi tutto in prima persona, passando il sabato e la domenica nei reparti e nei punti vendita, osservando tutto, anche le piccole cose, e cercando di cambiarle. La Fiat era diventata un colosso dai piedi di argilla con i grandi difetti di un’azienda pubblica, che mal sopporta la competitività e i meriti. Per questo, che piaccia o no, anche sotto questo profilo è stato, nel suo ambito, un rivoluzionario. Poi ci ha messo del suo, il genio del giocatore. Forse doveva averglielo insegnato Schopenauer: «Il destino mescola le carte e noi giochiamo».