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Mangiare troppa carne distrugge il pianeta: il grido d’allarme dell’Onu sui rischi della deforestazione

Molti dei mali della Terra derivano dalla deforestazione per far spazio agli allevamenti. Fondamentali anche le nostre abitudini alimentari. Ma il rapporto spiega anche quali potrebbero essere le soluzioni

Ignazio Dessìdi I. Dessì   
La deforestazione per far spazio agli allevamenti mette a rischio la Terra
La deforestazione per far spazio agli allevamenti mette a rischio la Terra

Molti dei mali del nostro pianeta, compreso il 23 per cento di emissioni di gas serra, con conseguente aumento dei disastri climatici, derivano dalle deforestazioni finalizzate allo sviluppo dell’agricoltura industriale. Molto è legato, in definitiva, a ciò che mangiamo. Lo conferma il report speciale del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), frutto del lavoro voluto dalla Convenzione delle nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), che ha visto l’intervento di  oltre 100 scienziati ed esperti di tutto il mondo.

I dati elaborati dagli esperti dell’Onu sono preoccupanti. Ne deriva un affresco a tinte fosche sulle conseguenze delle abitudini alimentari. Nell’ultimo sessantennio il suolo planetario è stato asservito all’agricoltura intensiva a ritmi forsennati, e il consumo di carne è levitato in modo incredibile, con risultati quanto mai singolari: da una parte eserciti di obesi, e dall’altra quasi un miliardo di persone che soffrono la fame. Inevitabile allora pensare alla necessità di cambiamento nel nostro sistema economico ed alimentare.

Diventa fondamentale rivedere le nostre abitudini. Consumare meno carne a vantaggio delle verdure - stando a una recente ricerca del Bard College (New York) pubblicato su Scientific Reports - può ridurre, per esempio, la destinazione di terre ad allevamenti intensivi (del 35-50%), il ricorso a fertilizzanti e l'emissione di gas serra.

Foresta amazzonica (Ansa)

Qual è dunque la via da percorrere per salvare il pianeta?

Il rapporto osserva che molte conseguenze negative derivano proprio dall’uso errato del suolo, basti pensare all'aumento delle temperature, alla siccità e alle inondazioni. A loro volta tali effetti deleteri contribuiscono al degrado del suolo. Questo emette carbonio, e il suo sfruttamento agricolo ingenera la seconda causa di immissione, dopo l’utilizzo delle fonti fossili. Gli alberi scambiano anidride carbonica tra l’atmosfera e la biosfera tramite la fotosintesi bilanciando i livelli di carbonio, e se gli alberi sono sempre meno qualcosa succede: e non in positivo.

Non sfugge perciò la gravità del moltiplicare il degrado del suolo, e si osserva come i cambiamenti climatici continueranno a crescere, seminando disastri, anche in ragione dei modelli di gestione economica, della popolazione e dei consumi adottati. Occorre dunque cambiare i modelli, orientandoci con maggior convinzione verso la sostenibilità, se vogliamo modificare seriamente la tragica direzione imboccata.

Senza suolo non si vive

Troppo spesso ci si dimentica che senza suolo non si vive – come faceva notare Legambiente nel 2018, presentando il progetto europeo SOIL4LIFE – non si mangia e si rischia di essere travolti da smottamenti e alluvioni (oltre a perdere le riserve importantissime di carbonio). Non è allora inutile ripeterlo: la tutela del suolo è fondamentale nel contrasto ai mutamenti climatici e contribuisce a garantire la biodiversità, da essa dipende – a dirla in breve - la vita sul pianeta.

E’ assolutamente necessario, quindi, limitare l'attacco ai polmoni verdi della Terra, che per i tre quarti è dovuto alle attività umane e in particolare a quelle agricole, e determina un quarto delle emissioni di gas serra. Ed è indispensabile, di conseguenza, modificare drasticamente il modo di fare agricoltura, perché tutelare gli alberi significa vita. Il verde contribuisce a ridurre i mutamenti climatici in quanto assorbe l’anidride carbonica dall’atmosfera, ma, soprattutto, contrasta la desertificazione e il degrado del suolo.

Mangiare meno carne salva le foreste

13 miliardi di tonnellate di cibo sprecato

Esiste ovviamente una grande resistenza al cambiamento. Uno degli argomenti imperanti per giustificare l’imperversare dell’agricoltura industriale è l’incremento della popolazione globale e quindi della necessità di cibo. Il lavoro degli esperti Onu però evidenzia come, in realtà, nel mondo ben 13 miliardi di tonnellate di cibo prodotto finiscano inutilizzate, mentre il prezzo da pagare è alto: si produce dal 25 al 30 per cento di gas serra e si perde biodiversità negli ecosistemi, accelerando di molto degrado e desertificazione.

Alcuni numeri

Inoltre, come spiega Legambiente, bastano pochi numeri per comprendere quanto il discorso sia importante: “Nei suoli del pianeta sono stoccati 1.550 miliardi di tonnellate di carbonio, una quantità pari a ben 6 volte l’aumento della CO2 atmosferica dall’epoca preindustriale ad oggi, e questo significa che uno squilibrio a livello globale della biochimica del suolo è in grado di moltiplicare gli effetti del cambiamento climatico per come li abbiamo conosciuti fino ad ora. Ma anche che, al contrario, una buona gestione di coltivazioni, pascoli e foreste può dare un formidabile contributo allo sforzo globale di riduzione delle emissioni climalteranti, permettendo di sottrarre all’atmosfera enormi quantità di carbonio”. Cosa che “per l’Italia, si traduce nell’affrontare due grandi emergenze: mettere un freno al consumo indiscriminato di suolo e sviluppare una efficace politica di orientamento rivolta al settore agricolo”.

Paesi ricchi e Paesi poveri

Ultimamente molti Paesi tra i più ricchi hanno rallentato lo sfruttamento a fini agricoli del suolo, orientandosi verso i rimboschimenti, ma contestualmente i Paesi in via di sviluppo sono divenuti aree destinate a produrre carne, essendo i costi di produzione molto inferiori. Così, in quei luoghi, 13 milioni di ettari all’anno di foreste vengono distrutti per realizzare allevamenti (e piantagioni).

L'attacco ai polmoni verdi del pianeta

Preoccupa, in particolare, quanto sta avvenendo nella Foresta amazzonica in Brasile (dove la deforestazione ha avuto una accelerazione dopo l'elezione di Bolsonaro), Venezuela ed Equador, ma anche in Argentina, Paraguay e Bolivia, per quanto riguarda il Gran Chaco. Certo è che i modelli agricoli attuali hanno aumentato l’erosione del suolo, e la situazione rischia di peggiorare irrimediabilmente, incidendo sull'ambiente. Fino a conseguenze estreme: secondo alcuni studi, continuando di questo passo le emissioni, nel 2050, arriverebbero al 96% in più di quanto il pianeta possa sopportare. Una prospettiva da far vibrare i polsi.

Cosa si può fare

Lo speciale rapporto dell’Onu cerca comunque di fornire anche le linee di soluzione. Prima di tutto ridimensionare drasticamente la produzione di carne. Poi quella della soia, destinata per l’85 per cento agli allevamenti, cosa che consentirebbe di ridurre il suolo destinato a tale produzione. Diminuire inoltre l’utilizzo di diserbanti e pesticidi che impoveriscono il terreno, entrando nella catena alimentare con gravi rischi per la salute. Attuare piani di forestazione e rimboschimento per contrastare l’erosione del suolo, il suo degrado, la desertificazione e i problemi di carenza d'acqua. Ovviamente, alla fine, la domanda è però sempre la stessa: riuscirà il genere umano a far prevalere l’interesse all’ambiente (e in definitiva quello generale alla vita), sull'interesse speculativo ed economico?

Ignazio Dessìdi I. Dessì   
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