L'Italia e l'infrazione Ue, un film che ricorda la Grecia. Ecco cosa può succedere
Il momento della verità per il governo è arrivato: dovrà decidere come pagare il conto dei miliardi spesi per il reddito di cittadinanza e le pensioni a quota 100
Adesso, l’orologio della politica italiana – sospeso fra una precaria prosecuzione dell’esperimento grilloleghista e elezioni anticipate a settembre – deve girare ancora più in fretta. Sapevamo, ormai dallo scorso dicembre e dal varo della manovra 2019, che il momento della verità, per il governo Salvini-Di Maio, sarebbe arrivato con la manovra economica successiva, quella del prossimo settembre, la Finanziaria 2020, quando i protagonisti della politica italiana avrebbero dovuto decidere come pagare il conto dei miliardi spesi per il reddito di cittadinanza e le pensioni a quota 100.
Non c’è più tempo
Ma, ora, non c’è più tempo: le decisioni fondamentali vanno prese subito, in queste settimane, se non in questi giorni. Il risultato delle elezioni europee – con l’impasse dei partiti sovranisti e l’affermazione dei partiti, come verdi e liberali, più europeisti – ha fatto cadere gli ultimi dubbi. Ieri, la Commissione di Bruxelles ha deciso di raccomandare formalmente l’apertura di una procedura di infrazione per debito pubblico eccessivo a carico dell’Italia. Per fermarla, l’Italia deve dire subito se – e soprattutto come – intende impostare la manovra 2020
Nel mirino di Bruxelles
Se parte la procedura, l’Italia ha di fronte due strade: uscire dall’euro (anche se, secondo i giuristi, questo comporta automaticamente uscire anche dalla Unione, modello Brexit) o accettare un vero e proprio commissariamento della propria politica, anche più stringente di quanto avvenuto con la Grecia. La procedura per debito è, infatti, più severa di quella per il solo disavanzo. Il motivo è semplice: una crisi sui mercati che porti un paese sull’orlo del default può destabilizzare l’intera area euro. Dunque, per cinque anni, la politica economica italiana sarebbe decisa, anche nei dettagli, a Bruxelles e non a Roma e modellata su un obiettivo preponderante e preciso: azzerare il disavanzo di bilancio (pari oggi al 2,5 per cento del Pil, circa 40 miliardi di euro). Un’austerità soffocante. Le regole prevedono che, se l’Italia si rifiutasse di seguire la ricetta, potrebbe essere sottoposta a multe che arrivano a 3 miliardi di euro (con sospensione dei fondi che da Bruxelles arrivano in Italia). Non pagando, l’Italia si troverebbe nelle condizioni di dover uscire dall’euro.
Una scelta obbligata
A Bruxelles sostengono che il comportamento di Roma non ha lasciato alternative. Anche se Di Maio ha tirato in ballo le responsabilità dei governi del Pd, è nei sei mesi del 2018 con il governo Conte, dice Bruxelles, che lo spread si è impennato e si è aperto un buco nei conti di 7 miliardi di euro, rispetto agli impegni presi con la Commissione. E’ nel 2019 gialloverde che la Finanziaria Tria ha aperto un altro buco di 11 miliardi. Ed è con questo governo che, stando alle dichiarazioni dei suoi protagonisti, da Salvini a Di Maio, il deficit pubblico italiano si impennerebbe, nel 2020, al 3,5 per cento del Pil. La Commissione fa i conti: questo disavanzo significa che il debito pubblico italiano (il totale di Bot e Btp emessi), invece di scendere, come promesso, è cresciuto al 132,2 per cento del Pil nel 2018, 133,7 per cento nel 2019 e arriverà al 135,7 per cento nel 2020. In queste condizioni, dicono a Bruxelles, aprire la procedura d’infrazione era un atto dovuto e non aggirabile.
Cosa succede ora
I prossimi passaggi si consumeranno in fretta. La prossima settimana sapremo se gli altri governi europei vogliono un supplemento di dialogo con Roma e, su questa base, la decisione finale sul commissariamento dell’Italia sarà presa nei primi giorni di luglio dai ministri delle Finanze. Tutti sono consapevoli della difficoltà della scelta. Imbragare nella camicia di forza dell’austerità obbligata la terza economia d’Europa non è né facile, né indolore. Anche per questo, una procedura per debito non è mai stata applicata, nella storia dell’euro. Ma raramente, in quella storia, ci sono state, come oggi, una situazione di 27 a 1 contro l’Italia (Salvini sta per scoprire di non avere alleati), accoppiata con la generale insofferenza per gli attacchi che, da Roma, vengono quotidianamente verso le istituzioni europee.
I margini della trattativa
Cosa può dire l’Italia? L’ascesa inarrestabile del debito è, in larga misura, il risultato di una economia che non riesce a crescere. Tuttavia, l’autodifesa di Tria (“è colpa della recessione”) è già stata smantellata dalla Commissione, convinta che la recessione, anziché cadere dal cielo, sia risultato diretto, invece, del clima di sfiducia indotto dagli scantonamenti del governo gialloverde. Comunque, il rischio che una stretta improvvisa (ovvero una immediata manovrina estiva che recuperi quegli interventi di risanamento del disavanzo promessi e non attuati fra il 2018 e il 2019) accentui una recessione già in atto c’è. E’ probabile, dunque, che, su questo, la Commissione sia pronta a venire incontro all’Italia, accontentandosi di qualche limatura e dei risparmi (sulla spesa prevista nel 2019 per reddito di cittadinanza e quota 100) che, secondo il Tesoro, si stanno già materializzando. Il boccone troppo grosso per essere inghiottito è il 2020. E’ un boccone da 40 miliardi di euro. E sta dentro una trappola.
La trappola dell’Iva
La testa nella trappola, il governo Conte l’ha messa quando, nello scorso dicembre, per pagare le promesse elettorali del reddito di cittadinanza e di quota 100, ha messo in calendario un aumento di 23 miliardi di euro dell’Iva nel 2020. La trappola consiste nel fatto che qualsiasi cosa faccia il governo non può che perdere. Se aumenta l’Iva, colpisce i consumi e aggrava la recessione. Se non l’aumenta, come più volte garantito sia da Salvini che da Di Maio, fa impazzire il deficit e lo spread e aggrava la recessione.
Al momento, i due protagonisti del governo non sembrano curarsene. Proposte concrete per compensare un mancato aumento dell’Iva, per ora, non ce ne sono. Scaricare quei 23 miliardi sul disavanzo, significa però farlo arrivare al 3,5 per cento del Pil, un livello inaccettabile per l’Europa. Ma nella loro campagna elettorale permanente, Salvini e, sulla sua pista, Di Maio hanno rilanciato con la proposta della flat tax al 15 per cento sui redditi sotto i 50 mila euro. Per realizzarla, ci vogliono una quindicina di miliardi. Il disavanzo, già proiettato al 3,5 per cento del Pil dal mancato aumento Iva, arriverebbe, dunque, al 4,5 per cento.
Proiettata su questo scenario, l’apertura della procedura d’infrazione sembra soprattutto una sirena d’allarme. I partner europei vogliono sapere se l’Italia è lanciata su un percorso che porta al 4,5 per cento di disavanzo o se si tratta di un bluff di propaganda elettorale. E lo vogliono sapere subito. Ecco perché il film ricorda la Grecia. Rischiamo una campagna per le elezioni di settembre, centrata sul commissariamento dell’economia: troika sì, troika no. In Grecia, vinse troika no. Ma, alla fine, la troika (i commissari della Ue, della Bce, del Fmi) arrivarono ad Atene lo stesso.