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Le differenze sociali fra Conte 1 e Conte 2 ci sono e si vedono: ecco perché il nuovo governo conviene ai lavoratori dipendenti

Mentre l’esecutivo gialloverde era focalizzato su partite Iva e liberi professionisti, quello giallorosso si concentrerà su salari e stipendi. Dalla flat tax al cuneo fiscale

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Le differenze sociali fra Conte 1 e Conte 2 ci sono e si vedono: ecco perché il nuovo governo...
Conte con Salvini e Di Maio ai tempi del primo governo

La “discontinuità” fra Conte1 e Conte2? Facile trovarla, perché è vistosa. Basta sapere dove cercarla. Assai più del nome del premier, dei volti dei ministri, dei partiti che li sostengono, la differenza fra il governo gialloverde e il governo giallorosso è l’orizzonte sociale dentro il quale vogliono essere visti. Il governo Lega-5Stelle voleva essere il governo delle partite Iva, dei commercianti, dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani a medio reddito. Il governo 5Stelle-Pd sarà il governo dei salari e degli stipendi. In due parole, è la differenza che passa fra flat tax e riduzione del cuneo fiscale.

Governo gialloverde focalizzato su partite Iva e professionisti

Sono definizioni tagliate con l’accetta. E, in punta di fatto, assolutamente discutibili. Nei 14 mesi del Conte1, i 5Stelle hanno fatto approvare il Reddito di cittadinanza – destinato ai cittadini più poveri – e il Decreto Dignità, rivolto ai lavoratori precari. Insieme alla Lega, hanno rivisto le pensioni con Quota 100, di cui beneficiano pensionati a medio reddito. Ma, in politica, i fatti sono solo una parte dell’effetto. La campagna mediatica, lo sforzo di propaganda, il messaggio trasmesso all’elettorato, attraverso i tambureggianti interventi soprattutto di Matteo Salvini, erano e sono focalizzati sulla fascia sociale dei lavoratori autonomi a medio reddito. Anche se sono solo 5 milioni, contro 15 milioni di dipendenti, ma elettoralmente più volatili. Ecco, comunque, i condoni fiscali a ripetizione, l’Iva a forfait fino a 65 mila euro di reddito, l’ipotesi di una sanatoria sulle cassette di sicurezza, lo stesso mito dell’uscita dall’euro (che, nei fatti, penalizza i salari, sottoposti alla svalutazione, e salvaguarda parcelle, fatture e conti all’estero). E, infine, un altro mito: quello della flat tax.

Il Conte 2 premia le buste paga

Simmetricamente, il Conte2 si guarderà bene dal vessare gli autonomi. Ma i messaggi che lo caratterizzano sono quelli della lotta all’evasione fiscale, del cuneo fiscale, del salario minimo: tutte misure che scavalcano gli autonomi e premiano specificamente le buste paga. Dove l’evasione, in virtù della ritenuta alla fonte, non c’è. Dove il divario fra stipendio lordo (di tasse e contributi) e netto è stridente. E dove spesso mancano le garanzie dei contratti di lavoro. Un po’ un ritorno all’obbligo di fattura elettronica di Gentiloni e al bonus Renzi, due marchi di fabbrica del Pd.

Bonus e flat tax

Bonus Renzi e flat tax illustrano bene questo contrasto e le differenti platee sociali di riferimento del Conte1 e del Conte2. Il bonus va ai lavoratori dipendenti (80 euro al mese) che guadagnino fra 8 e 26 mila euro l’anno, per un totale appena inferiore a mille euro l’anno. Il costo è di circa 10 miliardi di euro che i promotori della flat tax pensavano di riassorbire per contribuire a finanziare l’abbattimento al 15 per cento dell’aliquota Irpef per tutti i redditi, fino a 50 mila euro. In altre parole, anche gli autonomi avrebbero attinto ai fondi del bonus Renzi, finora riservato ai dipendenti. Ma non è finita. Poiché, di fatto, l’aliquota effettiva sui redditi fino a 28 mila euro è già del 15 per cento, la flat tax costituiva un guadagno solo per i redditi fra i 28 e i 50 mila euro (il reddito medio Irpef è di poco superiore a 20 mila euro), più comuni fra gli autonomi che fra i dipendenti. I quali avevano da perdere anche sul piano delle detrazioni. Secondo le indicazioni di massima, il ventaglio delle detrazioni e delle deduzioni nella dichiarazione sarebbe stato azzerato e sostituito da una detrazione unica, uguale per tutti, pari a 3 mila euro l’anno. Ma, per i lavoratori dipendenti, significava veder sparire la detrazione specifica per il lavoro dipendente che, per un reddito di 26 mila euro, vale mille euro l’anno.

Insomma, fra i mille euro del bonus Renzi e i mille della detrazione Irpef, il lavoratore dipendente rischiava di perdere duemila euro l’anno. E’ vero che i tecnici leghisti hanno sempre detto che il contribuente poteva scegliere – se più conveniente – di restare con la normativa attuale. Ma questo non incide sul massiccio trasferimento di risorse da una categoria sociale all’altra che la flat tax comportava. Infatti, un buon numero di lavoratori dipendenti si sarebbe trovato a finanziare, insieme a tutti gli altri contribuenti, la flat tax, solo per restare, nella migliore delle ipotesi, esattamente come prima.

Il cuneo fiscale

Il Conte2 si muove in direzione esattamente opposta, visto che beneficia principalmente i lavoratori dipendenti. Oggi, in busta paga, su 100 euro pagate dall’azienda, in tasca al lavoratore ne arrivano solo 52,2. Gli altri 47,8 finiscono in ritenuta Irpef e contributi sociali (pensione ecc.). E’ un cuneo fra i più alti del mondo, anche se paesi con reti di protezione sociale del welfare simili, a livello di normativa, hanno cunei anche più alti (48,1 per cento la Francia, 49,4 per cento la Germania). L’ipotesi uno intorno a cui lavora il governo è di ridurre questo gap del 2 per cento. Costerebbe 5 miliardi di euro l’anno e, se applicata a tutti i lavoratori dipendenti, porterebbe in busta paga, in media un po’ più di 30 euro al mese, quasi 400 euro l’anno. Ma molti pensano che una misura del genere ha senso solo se viene percepita con chiarezza dai beneficiari: più alta è, meglio si percepisce. Limitandola ad una platea simile a quella del bonus Renzi (tetto uguale a 26 mila euro di reddito annuo, ma con estensione anche ai salari sotto gli 8 mila euro), il minor cuneo porterebbe in busta paga oltre 40 euro al mese. Di fatto, un innalzamento del bonus Renzi da circa 1.000 a 1.500 euro l’anno.

Il salario minimo

Ma la rinuncia dello Stato ad una parte dei contributi sociali deve beneficiare solo i lavoratori o anche le imprese? Nel primo caso, la misura aiuterebbe l’economia alimentando i consumi, ma, coinvolgendo le imprese si inciderebbe sul costo del lavoro, attraendo occupazione. Il dilemma, tuttora aperto nel dibattito sulla nuova manovra, si ripresenta su un provvedimento parallelo, anche questo mirato al lavoro dipendente: il salario minimo.

Introdurre un minimo retributivo per legge è una questione, tecnicamente, anche più complessa del cuneo fiscale. L’entità, anzitutto. Per avere un salario minimo paragonabile a quello degli altri paesi (tipo Francia e Germania) dovrebbe essere, dicono i tecnici, di 5-7 euro l’ora. Le proposte che giacciono in Parlamento indicano una cifra assai più alta: 9 euro. Se questa cifra si riferisse solo alla retribuzione oraria base, ne resterebbero fuori strati importanti di lavoratori (i chimici, categoria ben pagata, hanno un livello minimo base di 8,8 euro). Se fosse, invece, tutto (ferie, tredicesima ecc.) compreso, sotto la soglia si troverebbero 3 milioni di lavoratori, una quota pesante per le imprese, che dovrebbero sopportarne il costo, valutato fra i 4 e i 7 miliardi di euro l’anno, e potrebbero decidere di tagliare l’occupazione.

Ridurre la cifra bandiera a 5-7 euro ridurrebbe, naturalmente, il costo. Lo stesso avverrebbe se si scegliesse di puntare sull’allargamento della copertura dei contratti di lavoro firmati dalle organizzazioni più rappresentative (molti sottosalari sono il risultato di contratti di lavoro capestro, firmati da sindacati fantasma). Il salario di legge sarebbe limitato ai settori in cui non c’è contratto. Il dibattito è ancora aperto, ma scegliere la strada preferita dai sindacati confederali avrebbe l’effetto di ridurre il costo, ma anche di dilazionare i tempi. Decidere quali sono le organizzazioni più rappresentative richiede, infatti, una legislazione specifica che comporta una dilazione nell’introduzione effettiva del minimo. Una conseguenza che, in realtà, alcuni ritengono positiva, in vista della manovra 2020: consentirebbe di introdurre il principio del minimo, ma di ritardarne l’impatto sulle imprese.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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