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Con la seconda ondata saltano tutti i conti, ma c'è un modo per contenere i danni: ecco quale

Il rovescio della medaglia di una politica espansiva ad ogni costo è la rinuncia a contenere il debito pubblico. A differenza di crisi precedenti, pagare gli interessi sul debito non preoccupa molto il Tesoro. Perché gli interessi, in questo momento, sono molto bassi

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Con la seconda ondata saltano tutti i conti, ma c'è un modo per contenere i danni: ecco quale

“Deve passare la nottata” dice una delle battute più celebri del teatro di Eduardo. E la nottata non è ancora passata. Anzi, gli oltre 4 mila contagi registrati a Milano sono un record dall'inizio della pandemia, quasi il segnale che l'autunno potrebbe rivelarsi peggiore della primavera: un virus più diffuso anche se, forse, meno letale. E Milano è solo uno dei picchi d'Europa: Bruxelles precipita, Parigi si blocca, Madrid affonda, la Baviera barcolla, Manchester si paralizza. Il mal comune, questa volta, raddoppia il danno: per l'economia vuol dire che non solo la domanda interna, ma anche il grande volano della domanda estera e delle esportazioni si spegne.

A questo punto, saltano tutti i conti. Il 6 per cento di aumento del Pil messo in conto dal governo per il 2021 non è più una previsione, ma una speranza. Come la crescita del 4,7 per cento ipotizzata dal Fondo monetario internazionale per l'Europa dell'anno prossimo. Soprattutto, cambia la logica delle politiche appena impostate in Italia e in Europa. Nel 2020, i paesi europei, calcola il Fmi, hanno buttato mille miliardi di euro nella fornace della crisi per sostenere l'economia, arrivando a sussidiare 54 milioni di posti di lavoro che, altrimenti, sarebbero scomparsi. Tutte misure pensate per durare pochi mesi, da ritirare progressivamente l'anno prossimo, man mano che si avvia la ripresa, riducendo automaticamente il debito pubblico schizzato a livelli record. Invece, no. Prima o poi, questa progressione – ripresa, ritiro del sostegno, riduzione del debito – si verificherà. Ma il rischio è che il momento non sia il 2021.

Davvero, dunque, questa seconda ondata può riportarci alla settimana zero, all'inizio di marzo 2020? Nessuno, oggi, parla di lockdown nazionale. Ma, comunque, in realtà, dal punto di vista dell'economia, molte cose sono cambiate rispetto a marzo. Il virus non è più una sorpresa. Le aziende sono più preparate e più attrezzate a gestire l'emergenza. La scorsa primavera, grosso modo, si fermò una azienda su due. Oggi, la diffusione e lo stabilirsi di standard e procedure di sicurezza può ridurre di molto questa percentuale nell'industria. E anche in molte imprese del settore dei servizi (banche, assicurazioni, pubblica amministrazione ecc.) dove si è allargato il ricorso allo smart working. Anche in assenza di un lockdown totale, come quello di primavera, le misure di contenimento colpirebbero invece in pieno l'economia “di contatto”: bar, ristoranti, parrucchieri, intrattenimento. Per l'Italia, settori importanti, ma, probabilmente, con un'incidenza non superiore ad un sesto del Pil nazionale.

Secondo gli economisti di Unicredit, c'è un altro motivo per ritenere che l'impatto sull'economia, pur sensibile, sarebbe largamente inferiore allo scossone di primavera: partiamo già da un livello molto basso, di semiparalisi. Una nuova stretta, più che azzoppare ulteriormente l'attività, soprattutto rinvierebbe la ripresa. Di quanto? La previsione Unicredit è una frenata (dopo la ripresa estiva) limitata ad un trimestre, con una perdita, sul Pil dell'anno prossimo, circa dell'1 per cento: per l'Italia, una crescita, dunque, non più del 6, ma del 5 per cento.

Anche se la botta della seconda ondata fosse contenuta in queste dimensioni, tuttavia, i rischi non riguardano solo l'immediato. Più epidemia e crisi si prolungano, più le cicatrici sul tessuto economico si fanno profonde. Dai rapporti appena pubblicati dal Fmi viene, forte e chiaro, un allarme imprese. Il 25 per cento delle piccole e medie imprese europee, calcola il Fondo, già quest'anno non è in grado di pagare gli interessi sui suoi debiti con le banche. L'anno prossimo, la percentuale di queste aziende insolventi salirà al 45 per cento. Si rischia una apocalisse di fallimenti e bancarotte, altro che ripresa degli investimenti.

La situazione preoccupa al punto da spingere il Fondo ad un appello con pochi precedenti, nella storia del Fmi, ma anche di molte istituzioni economiche. E' un invito aperto a sostenere non solo le aziende illiquide, ma solventi:  cioè a corto, temporaneamente, di quattrini in cassa, però in grado di onorare i debiti. Ma a tenere in piedi anche le aziende insolventi, travolte dai debiti a condizione che siano vitali e abbiano prospettive di sviluppo e risanamento.

Il nodo che emerge drammaticamente, insomma, è politico. Il Fmi, come molti osservatori, sostiene che è cruciale non ritirare, ora, le misure di sostegno varate finora nel corso della pandemia. Non è quello che dicono i documenti programmatici preparati dal governo italiano, come dagli altri governi europei. L'Italia ha destinato 100 miliardi di euro, quest'anno, per tamponare la crisi, i paesi europei complessivamente mille miliardi: fra il 2019 e il 2020, i deficit di bilancio in Europa si sono moltiplicati per dieci. Si può ripetere lo stesso sforzo nel 2021? Gli economisti di Unicredit calcolano che, se i programmi di sostegno 2020 venissero ritirati dai governi europei e non ripetuti nel 2021, la politica economica non solo diventerebbe meno espansiva, ma, di fatto,  si trasformerebbe in apertamente recessiva: una stretta pari all'1 per cento del Pil.

Il rovescio della medaglia di una politica espansiva ad ogni costo è la rinuncia a contenere il debito pubblico. Per l'Italia, in marcia verso un mai visto 160 per cento del Pil, che manovre 2021 del calibro di quelle 2020, invece di ridurre, farebbero ulteriormente aumentare. Un bomba che non può che scoppiare, scatenando la speculazione e precipitando il paese nella crisi finanziaria? Molti non ne sono convinti.

A differenza di crisi precedenti, pagare gli interessi sul debito non preoccupa molto il Tesoro. Perché gli interessi, in questo momento, sono molto bassi, inferiori all'1 per cento sui titoli decennali, contro il 3 per cento e oltre di altre, recenti, situazioni difficili. E perché il creditore principale di questo nuovo debito, quello chiamato ad assorbirne la quota largamente maggioritaria, altri non è che la Bce. E, alla Bce, non si pagano interessi. O, meglio, gli interessi pagati tornano al Tesoro, via profitti della Banca d'Italia.

Ma la Bce può continuare a comprare a occhi chiusi e senza fiatare tutto questo debito, italiano e no? Questo è quello che dice di voler fare. Philip Lane, il membro del board di Fraconforte cui, sempre più spesso, viene affidato il compito di spiegare politica e intenzioni della banca centrale europea ha scritto recentemente che, in questo momento, “la politica monetaria non deve diventare restrittiva come risultato delle manovre fiscali dei governi”. Fuori dal gergo, vuol dire che se i governi sono costretti a politiche di deficit che fanno salire il debito, spingendo i mercati a esigere interessi più alti, la Bce interviene. In due parole, Francoforte dice: non preoccupatevi, allo spread ci pensiamo noi.

Per quanto? Fino a quando? Si cammina su ghiaccio sottile. Difficile che i governi, quello italiano per primo, si muovano sui deficit, senza qualche forma di benedizione da Bruxelles. E' la scommessa delle prossime settimane.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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