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Come e dove spendere i soldi che ci darà l'Europa: ma il rischio è di avere nuove tasse "marcate" Ue

C'è attesa per il summit Ue di venerdì. Il belga Charles Michel, presidente del Consiglio europeo: “Sono realista. Avverto una difficoltà politica enorme”. Gli interventi probabilmente arriveranno, ma sotto quale forma, chi ne usufruirà, a quale titolo, con quali condizioni e chi, alla fine, pagherà il conto?

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Il premier Giuseppe Conte (Ansa)
Il premier Giuseppe Conte (Ansa)

Chi lo dice che lo smart working funziona sempre? A quanto sostengono i diplomatici, è il fatto di doversi vedere ancora in videoconferenza che rende un po' tutti pessimisti sul summit europeo di venerdì prossimo, che discuterà del grande Fondo anti-Covid. Giuseppe Conte, in questi giorni, nei suoi Stati Generali a Villa Pamphilj, si sta affannando a disegnare come e dove spendere i soldi che aspetta dall'Europa.

Ma, anche in Europa, bisogna stare attenti a non dire quattro, prima di averlo nel sacco. Il cammino che i soldi su cui spera Conte devono compiere è, infatti, come minimo, ancora “molto difficile e complicato” ha spiegato il regista del vertice di venerdì, il belga Charles Michel, presidente del Consiglio europeo. La settimana scorsa, in un incontro riservato con i leader dei gruppi politici del Parlamento di Strasburgo, Michel ha confessato: “Sono realista. Avverto una difficoltà politica enorme”.

C'è chi spera che sia soprattutto psicologica: anche primi ministri, cancellieri, presidenti reagiscono ai meccanismi inconsci dell'empatia e della confidenza e gli incontri faccia a faccia, più quattro chiacchiere nel corridoio, potrebbero aiutare a superare “il clima di reciproca diffidenza” (la definizione è sempre di Michel). Questo, almeno, dicono i diplomatici che, infatti, contano su un secondo summit “live” a inizio luglio e un terzo, subito prima di agosto, per arrivare ad un via libera al Fondo. Ma non basta la psicologia a garantire che, nel giro di un mese e mezzo, possano essere superate quelle che Michel chiama “profonde differenze” e non occorra, invece, molto più tempo per un accordo e l'inizio degli interventi.

Le differenze non sono tali, in realtà, da affondare il progetto. Per ora, nessuno sembra dubitare che, dopo che Merkel, Macron, Ursula von der Leyen si sono così esposti, la Ue si doterà comunque di un meccanismo di intervento post-Covid. Ma sotto quale forma, chi ne usufruirà, a quale titolo, con quali condizioni e chi, alla fine, pagherà il conto sono tutte domande ancora in attesa di risposta e, a porle, non sono solo gli scontati “Frugal Four”, i quattro paladini dell'austerità: Austria, Olanda, Svezia e Danimarca.

I debiti

Il terreno su cui si sono impuntati i quattro paesi “frugali” - la divisione degli interventi fra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti – è quello che ha attirato la maggiore attenzione. Ursula, presumibilmente con la benedizione di Merkel e Macron e l'entusiastica approvazione di Italia e Spagna, propone 500 miliardi di euro a fondo perduto e 250 miliardi sotto forma di prestiti. Le quattro capitali riluttanti vorrebbero invece rovesciare il rapporto, con il grosso sotto forma di prestiti e solo una quota residua come sovvenzioni. Un modo, nell'ottica del ministro olandese Hoekstra, per rendere più responsabili i beneficiari nella gestione degli aiuti. Come sempre, quando ci sono in ballo numeri, divisibili all'infinito, un compromesso si può trovare spostando qualche cifra. Ma, per l'Italia, la differenza è rilevante. Non tanto per il pagamento degli interessi, che oscilleranno intorno a zero, ma perché prestiti appesantiscono la mole del debito pubblico e, alla fine, vanno restituiti.

La formula

Italia e Spagna, i due paesi più colpiti dal virus, avranno le fette più grosse degli aiuti. Ma i 172 miliardi di euro che, secondo le anticipazioni, arriverebbero in Italia non sono affatto scontati. La formula con cui la Commissione ha pensato di distribuire gli interventi, infatti, è apertamente contestata e non solo dai quattro paesi “frugali” ma anche, ad esempio, dal Belgio dello stesso Michel. La formula utilizzata dai tecnocrati di Bruxelles tiene conto, infatti, dell'andamento del Pil, del prodotto interno lordo pro capite e del tasso di disoccupazione. Ma, per misurare questo andamento, puntualizzano i critici, Bruxelles parte dal 2015. Questo vuol dire considerare non solo gli effetti 2020 dell'epidemia, ma problemi preesistenti dell'economia dei paesi beneficiari, dovuti, ad esempio – è la ricorrente critica all'Italia – all'assenza di riforme. Alla fine dei negoziati, insomma, l'Italia potrebbe ritrovarsi con meno aiuti di quelli su cui sta facendo affidamento ora.

Chi paga

A prima vista, il finanziamento del Fondo parrebbe l'ultimo dei problemi. Si è già stabilito, infatti, che a indebitarsi sarà la Ue nel suo insieme e che gli investitori che avranno comprato i titoli europei del NextGeneration (il nome che Ursula ha dato al Fondo) verranno rimborsati solo a partire dal 2028, con il ciclo di bilancio comunitario che partirà quell'anno (e non dunque con quello che inizia nel prossimo gennaio) e, via via, assai lentamente, nell'arco di 30 anni. Non una questione pressante, dunque. Ma i problemi di principio pesano anche quando sono remoti. Quindi, se l'intervento del NextGeneration sarà soprattutto sotto forma di prestiti, saranno i paesi beneficiari, alla fine, a rimborsare la Ue e questa a rimborsare gli investitori.

In altre parole Bruxelles – questo vorrebbero i Frugal Four – si limiterebbe a fare da intermediaria, anticipando i soldi. Maggiore la parte a fondo perduto, maggiore l'esborso che, invece, ricade su tutti quanti (compresi, pro quota, gli stessi beneficiari degli aiuti). Nel 2028, quindi, per far fronte a questo esborso comune, bisognerebbe aumentare i contributi di ogni singolo paese al bilancio Ue: un'ipotesi che non piace, praticamente, a nessuno. Oppure, se il bilancio resta uguale, bisogna ridurre altre voci, come i fondi di aiuto allo sviluppo delle regioni svantaggiate. E' una ipotesi sulla quale, in particolare, sono pronti a dare battaglia i paesi dell'Est Europa, a cui vanno le fette più rilevanti dei fondi di sviluppo.

Le tasse

Se non si aumentano i contributi o non si riducono le spese, l'unica strada per chiudere il buco (futuro) dei soldi distribuiti a fondo perduto è aumentare le risorse autonome della Ue. Finora, Bruxelles dispone solo degli introiti delle tariffe doganali e tutti i tentativi di conquistare il diritto di imporre tasse proprie sono stati sconfitti dalle resistenze delle capitali, restie a cedere sovranità fiscale. Adesso, la Commissione pensa ad un flusso di tasse che porti nelle casse di Bruxelles – in via permanente – 15-20 miliardi di euro l'anno. Ma le idee sono ancora abbastanza vaghe e tutte contestate.

La più gettonata a Bruxelles è una imposta sulle 70 mila maggiori aziende che agiscono in Europa (la soglia minima sarebbe un fatturato globale di almeno 750 milioni di euro) che così pagherebbero l'accesso ad una platea di consumatori ampia come quella del mercato unico europeo. Potrebbe dare un gettito di 10 miliardi di euro l'anno, mentre una tassa ecologica sui rifiuti di plastica ne potrebbe portare 7 miliardi.

In ballo anche una digital tax, a carico di Google, Amazon, Facebook ecc. che assorbirebbe le imposte analoghe messe in campo, in questi mesi, da singoli governi come quello italiano, ma che avrebbe, a livello europeo, un campo di applicazione più adatto di quello nazionale. Susciterebbe, naturalmente, le ire di Trump, ma mai come l'altra ipotesi di cui si discute: una tassa da applicare sulle importazioni da paesi che non controllano le emissioni di anidride carbonica.

Il motivo c'è: per comprare il diritto ad emettere CO2, le imprese europee dei settori interessati pagano un costo che i loro concorrenti (ad esempio americani) non pagano. Questo squilibrio è destinato ad aggravarsi se passerà un'altra ipotesi, al momento quella di più facile realizzazione. Rastrellare fondi ampliando, appunto, il raggio d'azione di questo mercato europeo delle emissioni - che, oggi, riguarda siderurgia, carta, cemento, vetro, petrolchimico, centrali elettriche - ad altri settori, come il trasporto marittimo, riducendo, contemporaneamente, gli sconti per le compagnie aeree.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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