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I padroni della Coca Cola contro gli operai licenziati sul tetto della fabbrica. La multinazionale: fermiamo la produzione

Quello del Veneto è lo stabilimento più grande d'Europa: dà lavoro a 450 persone. Tre pozzi d'acqua ceduti a 13mila euro l'anno. La stessa quantità ai cittadini comuni costerebbe 600mila euro l'anno

Antonio Mennadi Antonio Menna   
La sede della Coca Cola a Nogara (Ansa)
La sede della Coca Cola a Nogara (Ansa)

Lavoratori licenziati che salgono sul tetto, vigilantes che avrebbero usato pistole elettriche per non farli passare, mogli e figli degli operai accanto ai mariti nella protesta, l'azienda che chiede lo sgombero, lo spettro della chiusura, il terrore di perdere anche l'ultima fabbrica. Ha tutti i colori del dramma quello che sta andando in scena a Nogara, in Veneto, nello stabilimento della Coca Cola Italia.  Quattordici lavoratori protestano da quasi un mese per un improvviso, doloroso, licenziamento. Molti sono migranti. Il lavoro significa permesso di soggiorno, possibilità di restare in Italia, per loro e le loro famiglie. Scuola per i figli, casa. Significa stipendio, ovviamente, sopravvivenza sulla linea del margine, sempre più sottile. Significa speranza.

Occupazione del piazzale

Hanno fatto cortei, provato a coinvolgere amministratori locali e parroci, giornali e forze politiche. Niente. Quindi hanno alzato il tiro. Da tre giorni occupano il piazzale della fabbrica, con tutte le famiglie al completo. I bambini giocano a pallone, le mamme fanno coraggio ai mariti, gli uomini urlano nei megafoni. Sei lavoratori si sono staccati dal gruppo e, forzando il cordone di sicurezza delle guardie private, sono saliti sul tetto. Dormono lì da tre giorni, fanno lo sciopero della fame, non hanno intenzione di scendere.

Il più grande d'Europa 

La Coca Cola di Nogara, in Veneto è lo stabilimento più grande d'Europa. Dà lavoro a 450 persone. E' venerato come un dio moderno. L'ultimo pezzo di un tessuto industriale che sta morendo di crisi anche nel non più mitico nord est. Tappeti d'oro per la Coca Cola. Tre pozzi d'acqua ceduti a 13mila euro l'anno. La stessa quantità ai cittadini comuni costerebbe 600mila euro l'anno. Ma creano lavoro, danno occupazione, barlumi di sviluppo in una terra arida. Ma quel bacino di posti perde acqua a gocce, come farebbe una vasca bucata. Pochi posti in meno, ogni anno, ma inesorabili. Uno svuotamento graduale, forse per ridurre la massa d'urto, o forse per assestarsi sotto i colpi della crisi. 

La logistica

Il punto debole si chiama logistica. La Coca Cola la affida a una multinazionale esterna. La multinazionale, a sua volta, la distribuisce su altre cooperative, in un castello di subappalti dove i soggetti entrano ed escono. All'ultimo ingresso, i 14 esuberi. Persone in più: non servono. Contratti a tempo indeterminato che spariscono. Forse, però, serviranno stagionali o interinali o si vedrà. Ma adesso via. I lavoratori - dodici su quattordici sono iscritti ai Cobas - non ci stanno.

Una dura vertenza

Comincia una dura vertenza ma non sortiscono alcun effetto. Così si passa all'occupazione del piazzale, poi del tetto. Non hanno la forza, sono pochi ma se potessero occuperebbero tutta la fabbrica. Ma qui arriva un ulteriore punto di discrimine. Dall'azienda fanno sapere che le proteste sono legittime ma lo stabilimento è una proprietà privata e quei lavoratori se ne devono andare. 

«Da 40 giorni», ha dichiara ai giornali locali Emiliano Maria Cappuccitti, direttore del personale di Coca ColaItalia, «subiamo danni. L’occupazione del tetto e del piazzale del magazzino crea situazioni di pericolo per dipendenti e produzioni. Ci vogliono decisioni drastiche, ripristinare la legalità nella nostra fabbrica che, ricordo, è proprietà privata». In sostanza, si chiede lo sgombero. 

Poliziotti antisommossa

Nel piazzale è arrivata una decina di poliziotti in assetto antisommossa. Ma di sgomberare con la forza quattordici lavoratori licenziati, con mogli e figli al seguito, di rimuovere d'autorità quelle barriere di disperazione, non ne ha voglia nessuno. Intanto, però, la tensione è già salita. C'è stata qualche collutazione tra il personale e le guardie della sicurezza privata, che provavano a proteggere l'ingresso dello stabilimento. Secondo i lavoratori, sarebbero state usate delle pistole elettriche su due manifestanti. Al riguardo, il gruppo parlamentare di Sinistra italiana ha presentato una interrogazione al Governo. 

Come un virus

Ma quello che più conta è che la protesta sta mangiando, come un virus, altri posti di lavoro. Ai 14 licenziati originari se ne sono aggiunti già altri 29, accusati di non essersi recati sul posto di lavoro nell'orario indicato(ovviamente a causa della protesta). E la stessa Coca Cola annuncia il ricorso a un ciclo di cassa integrazione straordinaria per i 450 dipendenti dello stabilimento, dal momento che con la protesta nel piazzale e sui tetti sarà costretta a interrompere la produzione. Il braccio di ferro è di quelli aspri, sgradevoli. Il rischio è di finire in una guerra tra lavoratori stessi, tra quelli licenziati, che vogliono essere integrati immediatamente, e quelli che vogliono entrare, lavorare, non finire in cassa integrazione e, soprattutto, non rischiare che Coca Cola si stanchi, chiuda tutto e se ne vada verso mete più appetibili. 

Lo spettro delocalizzazione

Sì, perchè sullo sfondo il rischio è sempre quello. Si chiama delocalizzazione. Nella vicina ex Jugoslavia, o in Albania, li aspettano a braccia aperte. Costo del lavoro più basso, tasse ai minimi, agevolazioni burocratiche e pugno di ferro con gli scioperi. Chi fa impresa per guadagnare molto rischiando il meno possibile (cioè tutti) non può che essere allettato. Coca Cola HBC Italia, al momento, esclude - chiaramente - ogni ipotesi di questo tipo. Sono a Nogara da 42 anni, sono legati al territorio, hanno un asse logistico da quella frontiera verso tutto il cuore dell'Europa. Ma il piazzale - dicono - e il tetto e lo stabilimento sono roba loro. Nessuno può occuparli e bloccare la produzione, nessuno può violare la legge in modo così violento.

Le condizioni per fare impresa

"Speriamo che in Italia ci siano ancora le condizioni di legalità per fare impresa", si sente dire. E il messaggio non è solo a chi c'è, e potrebbe andarsene, ma a chi potrebbe arrivare e deciderà di non farlo. Il sentiero è stretto, dunque. Che fare? Si chiedono i sindacati confederali, con le Rsu dei lavoratori, che hanno volutola mediazione del Prefetto e dell'amministrazione. Non sarà facile trovare una soluzione. Quello che è certo è che a Nogara vanno in scena, nel dramma, la globalizzazione, la crisi, l'acuta differenza tra chi ha e chi non ha, lo scontro di classe del nuovo millennio, tutto interno ai lavoratori, tra chi esiste ancora e chi non esiste più, con padroni sempre più padroni, sottoposti sempre più sottoposti, istituzioni sempre meno istituzioni e libertà che si coniugano sempre di più con il ribasso sui diritti e il rialzo sui profitti.
E' Nogara ma è il mondo.

Antonio Mennadi Antonio Menna   

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