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[L'analisi] La Brexit: se Londra tagliasse i legami Ue senza accordi sarebbe un disastro. L'impatto sull'Europa

Il danno si accumulerebbe tagliando la crescita dell’economia fino all’8 per cento. Cosa vuol dire la hard Brexit

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
[L'analisi] La Brexit: se Londra tagliasse i legami Ue senza accordi sarebbe un disastro. L'impatto...

Per l’economia – e per i tempi prevedibili – l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è una sciagura. Vista da Londra, può essere una sciagura piccola, se la Brexit fosse limitata e contenuta da un accordo che fissi tariffe e procedure doganali di favore per il traffico di merci e servizi attraverso la Manica: la soft Brexit, la Brexit morbida, nella versione immaginata dalla premier Theresa May e respinta dal Parlamento o altra analoga. Un punto secco di Pil in meno nella crescita del paese, hanno calcolato gli economisti. Ma se Londra tagliasse i suoi legami con l’Europa senza accordi specifici, diventando un paese terzo, come l’Australia (la hard Brexit, quella dura, nel gergo dei giornali) il danno si accumulerebbe, secondo gli stessi calcoli, tagliando la crescita dell’economia fino all’8 per cento.

L’IMPATTO SULL’EUROPA

E per l’Europa? I conti sono meno drammatici, ma un calcolo complessivo – anche nel caso della Brexit dura - non ha molto senso. Ci sono paesi, come l’Olanda, strettamente integrati all’Inghilterra, che rischiano molto e altri, come quelli dell’Est, più al riparo. Decisivo è quello che avverrà alle grandi economie del continente – Germania, Francia, Italia – non solo per quanto riguarda il commercio e non solo nell’immediato. L’Italia potrebbe trovarsi con un danno calcolabile in una decina di miliardi di euro l’anno, solo per l’interscambio di merci. Parallelamente più alto per Francia e Germania. Le esportazioni italiane verso la Gran Bretagna, infatti, erano pari, nel 2017, a 20 miliardi di euro, quelle francesi a 30 miliardi, quelle tedesche a 70 miliardi. Per Francia e Germania l’export verso l’Inghilterra corrisponde al 6,6-6,7 per cento delle esportazioni, per l’Italia solo al 5 per cento. E, allora, cosa succede?

CHE VUOL DIRE HARD BREXIT

Una Brexit totale, quella senza accordi, significa che Europa e Inghilterra applicheranno, nel futuro immediatamente prevedibile (cioè fino a che non si farà un accordo, che richiede, normalmente, anni di preparazione), le tariffe standard previste per i dazi doganali, dall’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto. In media, equivale al 5 per cento del prezzo delle merci. Quindi, complessivamente, per i 20 miliardi di export italiano, un aggravio sui prezzi di vendita oltre Manica (o una rinuncia a guadagni, se le imprese decideranno di assorbire loro i costi, per non perdere mercato) di oltre un miliardo. Ma distribuito in modo assai ineguale. L’Italia esporta in Gran Bretagna soprattutto macchinari (circa 4 miliardi di euro), veicoli (più di 2 miliardi), cibo, farmaceutici, mobili, vestiti (un miliardo di euro ciascuno). Le tariffe Wto, per ognuno di questi prodotti sono diverse:quasi nulla sui macchinari, fino al 13 per cento sull’alimentare.

TUTTO CIO’ CHE NON E’ DAZIO

I veri costi, però, sono altrove. In quelle che si chiamano “barriere non tariffarie” e che sono i veri ostacoli al commercio nel mondo di oggi, dove le tariffe, almeno fino all’offensiva protezionistica dell’America di Trump, sono normalmente basse e la parte difficile dei trattati commerciali consiste nel depotenziare regolamenti, controlli, normative, procedure burocratiche. Il vero costo della hard Brexit è qui e può arrivare, per l’Italia, fino a 8 miliardi di euro l’anno, trasformando l’export oltre Manica in una  sorta di corsa ad ostacoli fra doganieri, ispettori sanitari, differenze di etichette.

Eppure, il problema più grosso della hard Brexit non è neanche questo, anche se l’Italia, sotto questo profilo, è meno colpita, ad esempio della Germania. Le economie europee sono fortemente integrate non solo negli scambi di prodotti, ma, soprattutto, nei sistemi produttivi. Il caso dell’auto è il più semplice, ma è replicato un po’ in tutti i settori. Nessuna grande azienda automobilistica tiene grandi magazzini di parti e componenti da utilizzare, via via, nella produzione, come non tiene in deposito grandi numeri di auto in attesa di essere vendute. Le industrie funzionano tutte sulla base della “just in time delivery”, consegne cadenzate utilizzo immediato. Questo vuol dire un flusso continuo,rapido e ininterrotto, da una parte all’altra della Manica, di parti, componenti, auto semifinite. Se non arrivano in tempo, la produzione si blocca, con perdite economiche pesantissime. Una Mini, ad esempio, oggi attraversa due volte la Manica, una volta in direzione della Francia, un’altra della Germania (la Bmw monta il motore delle Mini in Baviera), prima di tornare sul mercato inglese.

LE CATENE PRODUTTIVE

Rivoluzionare queste catene produttive, dando per scontato che l’hard Brexit (l’assenza di uno specifico accordo commerciale)sarà per sempre o farle funzionare in qualche modo aggirando gli ostacoli è il costo più pesante e nascosto della uscita di Londra dalla Ue. Paradossalmente, neanche il gravoso spostamento di una fabbrica dall’Inghilterra sul continente potrebbe risolverlo, visto che aumenterebbe i costi sul mercato inglese.

Difficile anche calcolare in termini di euro l’impatto che una hard Brexit avrà sulla finanza. Per l’Italia, c’è una difficoltà, che può rivelarsi anche un costo, specifica, legata all’enorme debito pubblico italiano.

IL PROBLEMA DELLE ASTE

Il Tesoro, nel 2019, dovrà emettere titoli per circa 400 miliardi di euro (fra brevi e lunghe scadenze)nelle aste che via via si succederanno nell’anno. Il grosso degli acquisti, normalmente, viene fatto da pochi grandi istituti che successivamente collocano i titoli ai singoli investitori. Questi intermediari (nel gergo i “primary dealers”) sono quasi tutti grandi banche che agiscono dalla City londinese: Barclays, le americane Morgan Stanley e Merrill Lynch, la svizzera Ubs.

Con la Brexit, queste banche saranno tagliate fuori dal mercato italiano, a meno che – e fino a quando – non si siano ricollocate all’interno del mercato Ue. Mentre l’Olanda, ad esempio, consente l’intervento di banche straniere, la legislazione italiana proibisce a istituti di paesi terzi (quale diventerà l’Inghilterra)di fare offerte di acquisto sul mercato nazionale del reddito fisso. Niente più di un intoppo, un intralcio, un ingorgo nella gestione del Tesoro, ma l’ultima cosa da augurarsi in un’annata così delicata e difficile (dopo il drammatico autunno dello spread) per il mercato del debito pubblico italiano.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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