L'autocritica di Landini e la sfida del mondo che cambia: "Un nuovo statuto dei lavoratori, diritti anche per precari e autonomi"
Il segretario generale della Cgil a Genova parla di un sindacato inadeguato al mondo del lavoro odierno. Serve un rinnovo con l'apertura ai giovani

Maurizio Landini entra al Teatro Ivo Chiesa, la sala grande del Teatro Nazionale di Genova, accolto dal video della scena finale del "Fantozzi. Una tragedia" di Davide Livermore, in cui il protagonista ricorda che lui ha pensione, ferie pagate, posto fisso, possibilità di ammalarsi senza rischiare se si vuole continuare ad avere lo stipendio, tredicesima e persino una famiglia e legami non precari, anche se moglie e figlia sono Pina e Mariangela.
E va di pari passo anche il titolo del dibattito che vede protagonista il segretario generale della Cgil, con in sala ad ascoltarlo anche il suo predecessore ed amico Sergio Cofferati, insieme allo stesso Livermore, che è anche direttore del Teatro Nazionale, alla direttrice del Secolo XIX Stefania Aloia e al numero uno di Confindustria Liguria Giovanni Mondini, una delle anime della Erg, colosso delle rinnovabili: “L’impiegato Fantozzi: l’eroe del posto fisso e l’Italia che non c’è più”.
Ne esce la più profonda analisi sul lavoro da parte del leader della Cgil, con molta autocritica, aiutata dalla sua eloquenza torrenziale che si prende quasi tutto il tempo del dibattito, su cui lui stesso scherza: “E pensate che per me questa è solo la premessa…”. Ma l’autoironia va di pari passo con l’autocritica, quando Landini ricorda le conquiste degli anni Settanta: “Era il tempo in cui non solo si lavorava per vivere dignitosamente, ma giustamente ci si impegnava per realizzarsi sul lavoro: penso a iniziative come le 150 ore, che permisero di studiare a tanti lavoratori, o allo Statuto dei lavoratori”.
Qui arriviamo alla necessità di rivivere un momento di quel tipo, partendo dall’osservazione che in molte situazioni il sindacato è totalmente inadeguato al nuovo mondo del lavoro: “Penso a un nuovo Statuto dei lavoratori, che dia i diritti anche ai precari, a coloro che non hanno un contratto a tempo indeterminato e arrivo a dire anche ai lavoratori autonomi”.
E, con Landini che parla anche del popolo delle partite Iva e dei non garantiti, è come se crollasse un nuovo soffitto di cristallo, stavolta non di genere, ma contrassegnato dalla differenza fra chi ha posto fisso, contratti di lavoro a tempo indeterminato e i lavoratori precari e flessibili, che invece si perdono nella giunga contrattuale evocata anche da Mondini, che rappresenta – anche col suo tratto umano - una Confindustria attenta al sociale, alle condizioni dei lavoratori, al tempo libero, l’esatto contrario del “padrone delle ferriere” e della caricatura del cattivo padrone.
Arriva la domanda delle domande: il sindacato è attrezzato per questa rivoluzione?
“Quanti giorni ho per rispondere?” ride Landini e parte dal ricordo della sua esperienza in fabbrica, iniziata come apprendista: “Di solito, il lunedì mattina scendeva un ingegnere o un tecnico iperspecializzato dagli uffici della direzione e degli uffici e ci diceva cosa avremmo dovuto fare. Il nostro capo squadra ci aveva insegnato: “Voi ascoltate in silenzio”, salutatelo educati, ma poi si fa come vi dico io. Questi qui hanno studiato troppo”. L’episodio è quasi un apologo per raccontare il cambio epocale subito dal mondo del lavoro “dove la tecnologia, che storicamente aveva rivoluzionato il lavoro degli operai, stavolta invece ha colpito più il lavoro cognitivo” e questo, ovviamente, porta anche alla necessità di un cambiamento delle necessità dei lavoratori.
Così Maurizio Landini inizia a scrivere nuovamente lo Statuto dei lavoratori nella sua versione 4.0, la cui prima svolta è quella di pensare anche ai non garantiti, buco nero anche del sindacato, ma poi viene l’attenzione a nuove necessità: “Vedete, oggi la settimana lavorativa è fatta di 40 ore, io credo che, all’interno di questo tempo-lavoro, almeno 2 o 3 ore vadano dedicate alla formazione permanente e che i lavoratori vadano pagati per studiare e migliorare le loro condizioni di lavoro”.
La vita del segretario della Cgil diventa la cartina di tornasole per raccontare il cambiamento del mondo che, ovviamente, in primis, è cambiamento del mondo dei lavoratori: “Ai miei tempi, la libertà era costituita dalla proprietà della prima auto e ricordo ancora quando comprai la prima che, per partire, tipo la Bianchina di Fantozzi, a volte doveva essere spinta da me e dai miei amici. Oggi, invece, la proprietà è un particolare assolutamente secondario, l’importante è l’uso del mezzo e non si comprano più le auto, ma la mobilità”. Anche in questo caso il racconto landiniano è uno strumento per capire le nuove necessità: “Io trovai lavoro perché mi iscrissi a un ufficio di collocamento pubblico ed entrai in un posto di lavoro dove già avevo diritti che, ovviamente, qualcuno aveva conquistato prima di me. Oggi, invece, i ragazzi non solo non si iscrivono o non si sentono rappresentati dal sindacato, ma spesso nemmeno lo incrociano”.
E raccontare un mondo senza sindacato riporta al punto di partenza del racconto, a Fantozzi: “Ricordiamoci che Fantozzi era un impiegato non un operaio e, infatti, nella sua saga non c’è mai il racconto del sindacato, di un’azione collettiva, ma semplicemente a un certo punto la presa di coscienza individuale quando, dopo essere stato in ufficio col collega comunista, tira un sasso. Ma, è chiaro che allora c’erano sensibilità diverse, basti pensare alla marcia dei quarantamila a Torino contrapposta agli operai davanti ai cancelli di Mirafiori”.
Insomma, è cambiato il mondo e Maurizio Landini ammette con grande autocritica che il sindacato, anche il sindacato, non è stato in grado di andare con lo stesso passo del mondo e del lavoro e ribadisce: “Oggi i ragazzi nemmeno incontrano il sindacato”, probabilmente rendendosi conto che non li tutela: “Proprio per questo ho scelto due ragazzi per aprire il congresso della Cgil, prima ancora della mia relazione (torrenziale, ca va sans dire ndr), “e una dei due, che è di Genova, ci ha detto in faccia, rivolta a tutti i delegati, che lei il sindacato non l’aveva mai visto”.
Ne esce l’ennesima autocritica, quella definitiva, anche generazionale: “Occorre avere la pazienza di ascoltare i giovani, anziché spiegargli sempre noi come gira il mondo. Poi, certo, è giusto trasmettere loro conoscenze ed esperienze”. Su su, fino alle conclusioni, una assolutamente tradizionale, la più antica di questa lunga storia sindacale, che è il vecchio adagio di Karl Marx: “Occorre superare il lavoro come sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Ma è la seconda ad essere rivoluzionaria: “Non sono i ragazzi che devono cambiare, ma siamo noi”.