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L’addio di Draghi alla BCE. Cosa cambierà con Christine Lagarde?

Insediatosi nel novembre del 2011 il nuovo Presidente si è trovato subito a dover affrontare il secondo tempo della crisi deflagrata nel 2008

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
Mario Draghi e Christine Lagarde (Ansa)
Mario Draghi e Christine Lagarde (Ansa)

Il 31 ottobre sarà l’ultimo giorno di Mario Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea (BCE). A succedergli il giorno successivo sarà Christine Lagarde, già direttrice del Fondo Monetario Internazionale e prima ancora ministra dell’Economia e delle Finanze francese.

2012: la tempesta perfetta

Nel corso degli otto anni del suo mandato Draghi ha fatto la storia, e non solo quella della BCE. Insediatosi nel novembre del 2011 il nuovo Presidente si è trovato subito a dover affrontare il secondo tempo della crisi deflagrata nel 2008: l’epicentro si sposta dalle banche agli stati che sono intervenuti per salvarle, innescando la crisi del debito sovrano. La tempesta investe l’eurozona in modo violento, soprattutto i paesi periferici, mettendo a rischio l’esistenza stessa della moneta unica.

Il primo passo di Draghi è invertire la rotta rispetto alla politica del suo predecessore, il francese Jean-Claude Trichet, avviando una politica monetaria espansiva. Ma la tempesta non si placa, la fiducia cala e il sistema euro comincia a traballare. A preoccupare sono soprattutto i paesi dell’area mediterranea, non solo la Grecia, nel pieno della sua crisi, ma anche Portogallo, Spagna e Italia. Sono gli anni in cui circola sempre più diffusamente la teoria delle due eurozone, in cui si prospetta l’abbandono della Grecia a se stessa, in cui l’ortodossia della Bundesbank e del Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, si fa pressante a qualunque livello delle istituzioni europee. Il piano si inclina sempre di più e si rischia concretamente di scivolare in una discesa rovinosa verso la fine della moneta unica accompagnata forse dalla nascita di un euromarco, una moneta comune per i paesi virtuosi dell’Europa a trazione tedesca. Un epilogo che in quei mesi appare sempre più possibile e non irragionevole a molti tra analisti, investitori e trader e che ha i suoi sostenitori più o meno nascosti in molti palazzi della Germania e dei paesi nordici.

L’uomo che ha salvato l’euro

È Draghi a riportare il piano in equilibrio il 26 luglio del 2012 quando, in un incontro a Londra alla Global Investment Conference, annuncia che la BCE è pronta a fare “whatever it takes to preserve the euro”. Aggiungendo, per chi non avesse capito e avesse bisogno dei sottotitoli “and believe me, it will be enough”.

La BCE farà qualunque cosa serva per salvare l’euro. E quel che farà sarà sufficiente. Non c’è bisogno di aggiungere altro, il messaggio, come dice lo stesso Draghi concludendo il suo discorso, è “chiaro e franco a sufficienza”. E i mercati capiscono. E capiscono anche coloro che avevano preso a remare in una direzione diversa.

Nel corso dell’estate del 2012 la BCE vara un programma che consente di acquistare titoli di stato dell’eurozona in quantità illimitate, in pratica di sostenere senza limiti uno stato membro che si trovi ad affrontare un attacco speculativo. Basta l’annuncio, il programma non dovrà mai essere messo in pratica. Stabilizzata la situazione, la BCE si dedica a cercare una cura per il malato e, nonostante la netta e palese opposizione del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, vara politiche inedite per contrastare la crisi del debito e una possibile deflazione, sostenere la ristrutturazione del settore bancario, creare condizioni favorevoli per la ripresa economica e in definitiva uscire dalla crisi.

Nel 2014 i tassi su parte dei depositi presso la BCE scendono sotto lo zero, un’assoluta novità. L’obiettivo è liberare risorse, ma la mossa è insufficiente. Nel 2015 viene lanciato il Quantitative Easing (QE), un imponente programma da 2,6 trilioni di euro di acquisto periodico di titoli di stato per inondare di liquidità l’eurozona e tenere bassi i tassi d’interesse. Per l’Italia potrebbe essere finalmente l’opportunità di una vita, il costo del debito scende in automatico liberando fondi che potrebbero essere impiegati per la riduzione del debito medesimo o per investimenti che aumentino la produttività. Ma l’opportunità viene sprecata.

A fine 2018, dopo tre anni, la BCE pone termine al Quantitative Easing. Alla fine, persino i più feroci oppositori di Draghi sono costretti ad ammettere a denti stretti che la sua politica ha ottenuto risultati positivi. Lieto fine, scritta “The end”, dissolvenza, titoli di coda.

La storia prosegue

Non tutte le storie però finiscono con l’ultimo capitolo. Capita che alcune abbiano anche un epilogo, come in questo caso. Il mandato di Draghi prosegue anche nel 2019 e, man mano che va avanti, il nuovo anno si rivela sempre più difficile. La guerra trumpiana dei dazi rallenta la crescita mondiale con conseguenze che si fanno sentire anche in Europa; l’industria tedesca dell’auto è in difficoltà; il Regno Unito si contorce nella Brexit. E così, per evitare o quantomeno attenuare una sempre più probabile recessione continentale, la BCE decide di riprendere il Quantitative Easing così da aumentare ancora la liquidità, lubrificare il motore europeo ed evitare che si inceppi. Ma stavolta la decisione è molto più sofferta: il Consiglio della Banca Centrale Europea di spacca, in nove si oppongono e in sette votano contro. Sebbene dall’arrivo di Draghi in poi l’unanimità non sia più un dogma, la frattura è netta, rilevante e aperta.

Ad opporsi non sono solo i governatori di Paesi Bassi e Austria, ma anche di Germania e Francia. Questi ultimi erano tra i candidati alla successione del Presidente italiano. A loro però i capi di stato europei, e in particolare Emmanuel Macron e Angela Merkel, hanno preferito una persona che di mestiere non ha mai fatto il banchiere centrale, che non è neanche economista e che addirittura non è neanche laureata in economia. Si chiama Christine Lagarde, è francese e da otto anni è la Direttrice Generale del Fondo Monetario Internazionale.

Lagarde, un profilo anomalo

Lagarde non avrà un PhD, cosa che fa arricciare il naso a più d’uno nell’ambiente, ma la politica economica ha avuto modo di impararla sul campo. Laureata in giurisprudenza, dopo essere arrivata a capo di uno dei più importanti studi legali americani, Baker McKenzie, l’avvocato francese è divenuta in patria dapprima Ministra del Commercio Estero e poi Ministra dell’Economia e delle Finanze, la prima donna a occupare un posto simile in un paese del G7. Nel 2011, dopo lo scandalo Strauss-Khan viene nominata Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI), dove si impone rapidamente. Dai suoi ex colleghi del Fondo viene descritta come una persona estremamente capace, che impara rapidamente, con ottime capacità di mediazione, intuito politico e conoscenze personali con i leader di tutto il mondo.

Le sue qualità fanno capire perché Macron, Merkel e gli altri leader europei l’abbiano scelta senza esitazione, appoggiati dallo stesso Draghi che di lei ha detto che sarà una Presidente “eccezionale”. Oggi e negli anni a venire, infatti, i problemi per l’eurozona non saranno tanto sul versante finanziario e monetario, tradizionale terreno di gioco della BCE, quanto su quello della crescita, ormai quasi nulla e con concrete prospettive di recessione o stagnazione. E la crescita è terreno di gioco dei governi e delle loro politiche fiscali. Sono in molti, tra cui anche Draghi e Lagarde, a sottolineare come sia tempo per chi può di avviare o rafforzare i propri programmi di investimenti e di spesa pubblica, possibilmente in progetti di lungo termine e di riconversione “verde”. Il richiamo è indirizzato soprattutto alla Germania, prima economia del continente, che da anni vanta surplus di bilancio e commerciali e la cui industria è oggi in affanno come non accadeva da molto tempo.

Si tratta insomma di convincere i politici nordeuropei, e in particolare quelli tedeschi, ad allentare i vincoli di bilancio, mettere da parte l’austerità e investire, possibilmente in modo coordinato. Con questo scenario sullo sfondo, Lagarde appare una scelta promettente. Pur non provenendo dal mondo delle banche centrali né da quello della politica in senso stretto, parla la lingua di entrambi e si muove a suo agio con i protagonisti non solo europei, ma mondiali sia dell’uno che dell’altro mondo. Per dire, è una che ha negoziato una notte intera con Vladimir Putin su un programma di aiuti all’Ucraina e alla quale Donald Trump di tanto in tanto chiede consiglio. Le sue posizioni poi sono in linea con il nuovo scenario. Già nel 2010, da ministro francese, aveva sottolineato la necessità per la Germania di ridurre il proprio surplus commerciale e aumentare la spesa pubblica, cosa ribadita anche in veste di direttore del FMI nel 2017 e nel 2018. Senza contare l’approccio morbido mantenuto dal FMI verso la Grecia, in contrasto con quello assai rigido della BCE e della Commissione, fortemente influenzato dal governo tedesco.

Proprio l’esperienza al Fondo lascia intendere come la sua personalità e il suo carisma, il suo approccio concreto e la sua capacità di entrare in sintonia con lo staff, cui si unisce una certa tenacia acquisita quando era membro della nazionale francese di nuoto sincronizzato, possano permetterle di superare diffidenze e malumori interni alla BCE. La sua nomina, infatti, ha lasciato a bocca asciutta coloro che puntavano a quel posto, primi fra tutti il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, e quello della banca centrale francese, François Villeroy de Galhau, ed è facile immaginare che, al di là dei sorrisi di circostanza, l’accoglienza non sarà delle più calorose. Sia Weidmann che Villeroy de Galhau ritengono necessaria una revisione del quadro e della strategia in base ai quali vengono decise e implementate le politiche della BCE. Entrambi si sono dichiarati contrari all’ultima mossa di Draghi, il riavvio del Quantitative Easing lo scorso settembre, e in generale ritengono che la BCE si sia spinta troppo oltre. Senza contare che Weidmann è da sempre un fedele custode dell’ortodossia monetaria tedesca e quindi un fiero oppositore delle politiche di Draghi, alle quali non ha mai fatto mancare le sue critiche, talvolta molto marcate. Lagarde invece intende proseguire sulla scia di quanto fatto dal suo predecessore.

Un approccio flessibile

Se l’ex direttrice del FMI ha buone carte da giocarsi all’esterno della BCE, è possibile quindi che si trovi a penare non poco all’interno. L’unico modo per poter giocare appieno il suo ruolo è, verosimilmente, quello di riuscire a trovare un accordo con il governatore tedesco e con quello francese, o almeno di guadagnare la loro non ostilità. Terreno di confronto potrebbero essere i tassi negativi, invisi a Weidmann e molta parte dell’opinione pubblica tedesca, e le modalità di utilizzo del nuovo QE. Un approccio flessibile sulle due questioni potrebbe ammorbidire le posizioni dei nove governatori, membri del Consiglio della BCE, che hanno criticato apertamente l’ultima mossa di Draghi. Un’intesa con Weidmann sulla strategia per il prossimo futuro è inoltre fondamentale anche sul versante esterno. Nessun Cancelliere tedesco, infatti, andrebbe allo scontro aperto con un governatore della Bundesbank. Ipotizzare quindi che la Germania possa avviare programmi rilevanti di spesa pubblica senza il consenso, o almeno la non avversione, di Weidmann è irrealistico, soprattutto se si tratterà di un Cancelliere privo della forza di Angela Merkel, ormai al suo ultimo mandato.

Il bilancio per l’Italia di questo eventuale nuovo approccio potrebbe essere contrastante. Da un lato, se effettivamente dovessero essere avviati programmi di investimenti e spesa pubblica che rilancino la crescita, soprattutto quella della Germania, i riflessi per la nostra economia, e in particolare per la nostra industria, legata a filo doppio a quella tedesca, non potrebbero che essere positivi. Dall’altro, un riallineamento dei tassi intorno allo zero, e in prospettiva di poco al di sopra di esso, avrebbero conseguenze sulla nostra spesa per interessi e quindi sulle risorse disponibili per finanziare la spesa pubblica, sia essa corrente o per investimenti. Prevedere quale potrebbe essere il saldo finale è arduo. Una cosa è certa però: le politiche varate dalla BCE sotto il mandato di Draghi hanno consentito al nostro paese di risparmiare considerevolmente sulla spesa per interessi offrendo l’opportunità di indirizzare tali risorse ad abbattere il nostro debito o a finanziare investimenti per accrescere la nostra competitività. Si è preferito fare altro, sprecando così un’occasione forse irripetibile, almeno nel prossimo futuro.

Alessandro Spaventadi Alessandro Spaventa   
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